Home EXTRA ANNIVERSARI Black Sabbath: 50 anni di Paranoid

Black Sabbath: 50 anni di Paranoid

L’utopia della “summer of love” era spazzata via. Il Vietnam, un futuro di possibili guerre nucleari, la droga che non è più la chiave per aprire le porte della mente ma un’epidemia che incomincia a portare via da questo mondo grigio i giovani (e soprattutto i giovani eroi, come stanno per scoprire milioni di fan da lì a dodici mesi). Ozzy, Tony, Geezer e Bill hanno già tirato fuori un suono per questa atmosfera tetra, ma quel suono è ancora forse troppo influenzato dal blues rock di band come i Cream e i Ten Years After. Siamo a soli quattro mesi di distanza dal debutto e i quattro di Birmingham tornano in studio a battere il ferro (anzi, il metallo) finché è caldo: il risultato Paranoid, forse il più grande album heavy metal di ogni tempo, un classico inimitabile fatto di un riff perfetto dopo l’altro, di una melodia immortale dopo l’altra.

Paranoia, certo. La paranoia che ti prende quando hai fumato troppo hashish, la droga prescelta dai quattro Black Sabbath a quei tempi, prima che entrassero anche loro a fare parte dei contagiati dall’epidemia, annegando in chili di cocaina. “Stoner”, la chiameranno negli anni a venire, quando delle giovani band metteranno in pratica una delle tantissime lezioni insegnate dai Sabbath ai discepoli del metal, musica pesante, lenta, che ti conduce nel viaggio, un viaggio assai diverso da quello lisergico di pochi anni prima. Ma quella di Paranoid è solo una felice coincidenza, un riff buttato giù in due minuti alla fine delle prove e un testo completato in altri due minuti: così nacque uno dei pezzi più famosi di sempre, tanto potente da far insistere la casa discografica per intitolare l’intero disco proprio in quel modo.

Disco che invece doveva chiamarsi “War Pigs”, i maiali della guerra, quei maiali che mandavano i ragazzi a morire in Vietnam, a uccidere altri ragazzi e poi tornare dentro una bara. War Pigs, una delle tante icone del metal contenute in questo capolavoro, un pezzo che rivela quanto inconsapevoli nel loro genio fossero i Sabbath: Geezer aveva infatti scritto il pezzo come “Walpurgis”, un termine che ricordava la notte di Santa Valpurga, una festa cara ai satanisti – fu poi costretto dalla casa discografica a cambiare il titolo ma non cambiò mai il testo, come promesso, nel quale il satanismo, Satana, il male è la guerra. La paura fottuta di essere mandato a morire in Vietnam, che dà a quel testo una potenza immortale.

Ma in “Paranoid” i classici escono dalle fottute pareti: quale metallaro che si rispetti non ha mai suonato (o intonato) il riff di Iron Man o Electric Funeral? E quanti hanno imparato dalla lezione della ballata psichedelica Planet Caravan? La voce di Ozzy filtrata da uno speaker Leslie, le congas di Bill e la gentile chitarra di Tony insegnano a migliaia di discepoli una lezione importante: fa quel cazzo che ti pare. Essere una band metal non è una prigione dentro la quale sei costretto a essere sempre più pesante possibile. Sii chi sei e che si fotta cosa pensano gli altri, casa discografica, produttore, manager, persino il tuo pubblico.

Di lì in poi arriverà il grande successo, pubblico e classifica tributeranno ai Sabbath gli onori che la critica si rifiutava ancora di concedergli (Nick Tosches su Rolling Stone Magazine definirà Ozzy “un Keith Relf che frigna riguardo ai tamponi che ha conficcati su per il naso”), ma anche quello non durerà per molto, e chi stroncò “Paranoid” nel 1970 oggi si vede costretto a ritrattare di fronte a quello che è, più dell’esordio, l’album che ha cementificato l’heavy metal nell’immaginario collettivo. Quattro freak, quattro outsider che hanno dato a un esercito di outsider una colonna sonora per la vita, un conforto nel quale rifugiarsi per dimenticare per un po’ il disagio sociale del mondo che ha dimenticato i sogni di pace e amore della “summer of love”. Come dice uno slogan usato dai Sabbath nelle loro t-shirt: “You can only trust yourself and the first six Sabbath albums”.

DATA D’USCITA: 18 Settembre 1970
ETICHETTA: Vertigo

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.