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Ennio Morricone: 10 “lati B” del Maestro

Ovunque si legga qualcosa di Ennio Morricone, si legge “maestro”. “Maestro Morricone” qui, “Maestro Morricone” lì… se si fosse trattato di chiunque altro, sarebbe quasi nauseabondo, quasi ridicolo. Ma, stranamente, per lui sembra quasi riduttivo. Un musicista immenso, le cui composizioni sono state colonna sonora che non solo hanno migliorato le immagini che andavano a commentare, ma che talvolta gli hanno fatto travalicare la soglia di quella porta che ti fa entrare nella leggenda. E quelle composizioni sono uscite poi dallo schermo argentato per entrare a commentare i momenti della nostra vita, un calcio di rigore, un matrimonio, il ricordo di qualcuno. Se suona sciocco, scaramantico, attribuire a un anno – celebrazione di una rotazione intorno al sole del nostro pianeta, il cui inizio e fine sono arbitrariamente decisi dall’uomo – connotazioni negative, il 2020 sembra tenerci molto a farci indugiare su questa scaramanzia portandoci via Morricone dopo averci ferito in tanti modi diversi, dopo averci fatto riflettere sulla fragilità della società occidentale; sì, perché Morricone, dopo 60 anni di carriera e 91 di vita, era ancora vivo e vitale come pochi, pronto a lavorare, instancabilmente come ha sempre fatto, per dire qualcosa di originale che entrerà come colonna sonora delle nostre vite.

Instancabile, sì, seppur lui, dal carattere umile e spigoloso, si considerasse “un disoccupato della composizione musicale, se paragonato a Bach”: arrangiatore (suoi gli arrangiamenti di tantissimi grandi classici pop degli anni ’60 come “Sapore di sale” o “Il mondo”), compositore di musica classica e d’avanguardia, persino scrittore di brani pop (come lo straordinario capolavoro di Mina “Se telefonando”, del quale scrisse la musica) e, naturalmente, autore di colonne sonore, oltre cinquecento a partire dal quel primo lavoro del 1961 per “Il federale” di Luciano Salce fino ai lavori recentissimi per Tarantino, Tornatore e la televisione.

Il maestro non era snob, metteva il suo lavoro al servizio di film di tutti i livelli e generi: il sodalizio con Leone e la geniale idea non convenzionale di usare fruste, sassi, incudini e altri oggetti o il leggendario verso del coyote de “Il buono, il brutto, il cattivo” che ha spinto il Washington Post a pubblicare un coccodrillo (poi modificato) deriso in tutto il mondo, il fischio del maestro Alessandro Alessandroni, che poi ritroveremo in altri due film nei quali Leone era produttore ma in cui il regista era un suo giovane protetto, un ragazzo romano e pacioccone allora ai suoi esordi con “Un sacco bello” e “Bianco, Rosso e Verdone”. E poi capolavori come “C’era una volta in America”, “La leggenda del pianista sull’oceano”, “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, discreti film innalzati dal suo commento come “The Mission”, una delle sue tante nomination all’Oscar, poi arrivato – escluso quello alla carriera – solo con Tarantino e il suo “The Hateful Eight” nel 2016.

Sarebbe facile proporvi una selezione dei suoi più leggendari capolavori, ma ve ne sono talmente tanti che sarebbe di scarsa utilità; abbiamo deciso quindi di dare attenzione a dieci lavori un po’ meno noti del Maestro, lavori che consentano di apprezzarne la versatilità compositiva. Dei lati B, direbbero i lettori nati negli anni ’80 o prima:


“Milano odia: La polizia non può sparare” (1974)
Diretto da Umberto Lenzi, questo poliziottesco con un Thomas Milian in grandissima forma, seppur atipico, è uno dei capisaldi del genere: violento, cinico, brutale come solo Lenzi sa essere. Al Maestro (come lo chiamano pure gli americani, appassionati del genere) non resta che sfornare un gioiellino che non a caso sarà coverizzato dai Calibro 35 e da John Zorn.


“Mille echi” (da “La Piovra 2”, 1986)
Prima di “Romanzo Criminale”, prima di “Gomorra”, quindici milioni di italiani ogni settimana si sintonizzavano su Rai Uno per seguire le vicende del Commissario Cattani: ferocemente drammatico e che non aveva paura di essere crudo e cupo, “La Piovra” rimane tuttora molto avanti rispetto alle produzioni Rai odierne. Morricone subentrerà a Riz Ortolani per la seconda stagione, più famosa è “La Morale”, il tema della serie, ma “Mille Echi” è forse ancora migliore.


“Metti una sera a cena” (1969)
Tre note, un ritmo bossanova e la meravigliosa voce di Nora Orlandi valgono a Morricone il suo secondo Nastro D’Argento. Griffi porta la sua pièce teatrale al cinema in maniera furba ed elegante, il pubblico borghese raccoglie e lo rende un successo, nonostante una sceneggiatura estremamente fumosa infarcita di elucubrazioni pseudo freudiane sull’amore. Ma il pubblico italiano gradì comunque: del resto sesso a tre, tradimenti, libertà sessuale e noia borghese non si vedevano tutti i giorni nelle nostre sale.


“Ondas de Amor (Serenade)” (da “Tepepa”, 1968)
Lo “Spaghetti Western”, termine dispregiativo usato dagli yankee per descrivere i western prodotti da registi italiani, non è stato solo quello dei capolavori senza tempo di Sergio Leone. Certo, quelli sono film che vengono riconosciuti tra i più grandi di sempre in modo trasversale, ma il genere ha prodotto centinaia di film ed è stato in auge per quasi quindici anni. Giulio Petroni non è forse da annoverare tra i giganti del genere come può esserlo ad esempio Sergio Corbucci, ma il suo “Tepepa”, che vede Thomas Milian nel ruolo di un rivoluzionario contro il perfido Colonnello Cascorro (Orson Welles), ha certamente un ruolo di rilievo in esso. Morricone che, come è superfluo sottolineare, col western aveva una qual certa affinità, tira fuori un’altra colonna sonora straordinaria, nella quale brilla questo splendido corridola cui voce (e testo) è di Josè Voltolini.


“Quattro mosche di velluto grigio – Titoli” (1971)
Pensando a Dario Argento, vengono subito in mente le collaborazioni coi Goblin di Simonetti, ma il Maestro del Brivido ha esordito proprio con Morricone, che ha musicato la sua “trilogia degli animali”, improvvisando quasi l’intera colonna sonora de “L’uccello dalle piume di cristallo” come fosse un album jazz (secondo i racconti del regista romano), usando le sperimentazioni precedentemente provate con il suo Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Quest’ultimo capitolo vede il protagonista suonare in una band rock, ciò significa che Morricone esordisce nel film con un assolo di batteria e un sound di Fender Rhodes che guida un pezzo quasi prog (interrotto ogni tanto da un break destabilizzante di sintetizzatore).


“Quello che conta” (da “La cuccagna”, 1962)
Di Luciano Salce ricordiamo principalmente i primi due straordinari capitoli di “Fantozzi”, ma Salce è anche stato altro. In questa feroce critica della società italiana dell’epoca, Salce sceglie ancora una volta, la terza, il giovane Ennio Morricone per musicare la sua storia. Il protagonista del film è un giovane che egli scelse per il ruolo di contestatore, un ruolo che in qualche modo anticiperà le tematiche sessantottine; quel giovane era Luigi Tenco. Per lui, Morricone scrive due canzoni, una delle due è proprio questo piccolo gioiello, con testo scritto dallo stesso Salce. Mike Patton ne farà una cover per il suo album tributo alla musica pop italiana di quell’epoca, “Mondo Cane”.


“Città viva” (da “Il bandito con gli occhi azzurri”, 1980)
Nel 1980 il filone poliziottesco è quasi giunto al suo epilogo, ma Alfredo Giannetti, Oscar alla sceneggiatura per “Divorzio all’italiana”, decide di cimentarsi nel genere, usando Franco Nero come protagonista e Morricone per il commento sonoro. Quest’ultimo è assai migliore della pellicola in sé, che come poliziottesco manca degli elementi di ritmo, crudezza e violenza che avevano caratterizzato il genere. Restano i colpi di scena e il rock infuso di jazz (o forse sarebbe meglio dire il contrario) che gode di due straordinari musicisti come Enrico Pieranunzi al piano e Roberto Gatto alla batteria.


“Tema Italiano” (da “Il clan dei siciliani”, 1969)
Strano vedere un clan di siciliani interpretato da soli francesi, ma il sofisticato tema guidato da un ossessivo riff di chitarra e inframezzato da un marranzano rende Jean Gabin e Marc Porel un po’ più gangster siciliani. Colpo di scena ben più improbabile di qualunque scena del film è la splendida cover realizzata in tempi recenti dai Khruangbin, forse persino più bella dell’originale del maestro.


“Le foto proibite di una signora perbene” (1970)
Per sottolineare la sensualità di Dagmar Lassander in quello che sarà un precursore dei cosiddetti “gialli”, e in particolare di quelli dalle connotazioni erotiche, Morricone affida la parte vocale di questo tema alla lasciva voce di Edda Dell’Orso, fenomenale cantante la cui voce da soprano è possibile ascoltare nei capolavori del Maestro, tra i quali “Il buono, il brutto, il cattivo”, “Giù la testa” e “C’era una volta il West”. Il risultato è uno dei tanti straordinari pezzi lounge che perfettamente si sposano con i film del genere.


“Mia cara nonnina” (da “Bianco, Rosso e Verdone”, 1981)
Il giovane Verdone aveva come maestro (e produttore) il grande Sergio Leone. Leone, per la colonna sonora dei film del ragazzo, pensa a un suo caro amico, compagno di classe delle elementari e amico di tante avventure. “Te devo fa’ debbutta’ ar massimo”. Difatti, Morricone fa un capolavoro per “Un sacco bello”, usando il fischio del maestro Alessandroni e, chiaramente, si ripete per “Bianco, Rosso e Verdone”. Nel secondo film di Verdone niente batte quel capolavoro di poesia che accompagna Elena Fabrizi nel ruolo della nonna. Morricone coglie il tenero affetto che nella pellicola (e probabilmente anche nella vita) unisce la Sora Lella al personaggio di Mimmo e in generale l’amorevole dolcezza del rapporto tra una nonna e suo nipote. Perché quell’uomo che apparentemente poteva sembrare difficile era semplicemente una persona dolce, garbata, debordante di amore per la musica e di genio. Il ricordo di Verdone è infatti tenero e amorevole, che porta un sorriso, come riso, risaia, me vie’ da ride…

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.