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Luca Castelli: «Spotify? Una nuova esperienza musicale»

Una tonnellata di musica in streaming, a disposizione di tutti, Spotify è arrivato in Italia da poche settimane e già sta modellando le abitudini d’ascolto musicale di molti. Studi, lavori, lavi i piatti? E la libreria sconfinata del servizio è lì con te, in ogni momento, offrendoti ore e ore della musica che vuoi. Una rivoluzione? Difficile dirlo in un’epoca che ha già visto inventare YouTube o che ha sdoganato ampiamente la vendita di mp3 online. Ma certo qualcosa sta facendo muovere nel complesso mutamento dei paradigmi sociali legati alla musica e al consumo della musica. Per orientarci meglio in questo nuovo trend, ci affidiamo alla bussola digitale di Luca Castelli – giornalista de La Stampa (cura il blog Digita Musica) e de Il Mucchio – che da sempre vive di pane, musica e tecnologie, in ordine del tutto variabile.

Luca, perché l’Italia ha dovuto aspettare così tanto per poter usufruire di un servizio come Spotify? E il successo travolgente di queste settimane era del tutto prevedibile?
Per lanciare questi servizi c’è sempre bisogno di accordi locali: non bastano le licenze internazionali o il via libera delle major, ma bisogna trattare – per esempio – anche con i collettori nazionali come la SIAE. Si rischia di perdere un po’ di tempo per ogni singolo paese. Spotify e molti altri hanno preferito prima concentrarsi sui mercati più redditizi e, solo in un secondo tempo, quando lo streaming è diventato globale, ampliare i loro orizzonti ai paesi minori, come – ahimè – il nostro. Così, nel caso di Spotify, l’Italia è arrivata quattro anni dopo la sua nascita, assieme a Polonia e Portogallo. In quello di Rdio, tre anni dopo, con Messico, Lettonia, Islanda… Solo Deezer ha seguito una strategia diversa, snobbando del tutto gli USA e aprendo quasi ovunque. Per quanto riguarda il successo in Italia, sarebbe interessante avere qualche dettaglio in più. Ma in fondo, in condizioni di buona ADSL la fruizione in streaming è molto più efficiente, automatica, potente di quella su vinile, cd o anche tramite download. Ho sentito molti amici appassionati di musica, tradizionalisti e spesso critici nei confronti del digitale, che si sono subito innamorati di Spotify. Sì, per me era abbastanza prevedibile.

Ma come funzionano servizi come Spotify e ora come Rdio? Case discografiche, service, utenti: chi paga chi? Ci aiuti a ordinare la nuova gerarchia del consumo musicale?
Le formule sono leggermente diverse, da un servizio all’altro. In linea di massima, i soldi arrivano dagli abbonati paganti (attualmente Spotify ne ha sei milioni in tutto il mondo; per Rdio e Deezer non ho dati ufficiali, ma sono di sicuro molti meno; negli USA, la radio online Pandora ne ha invece molti di più). Questi soldi vengono ripartiti – in base al numero di ascolti delle canzoni – tra il servizio stesso e le case discografiche, che a loro volta poi ne girano una parte ai rispettivi artisti. Come? Purtroppo c’è poca trasparenza sui numeri. Inoltre, i contratti variano da una label all’altra (le major riescono a spuntare percentuali maggiori) e ognuna decide poi quanto girare ai suoi artisti. Martin Mills del gruppo Beggars ha dichiarato che il 50% di quanto arriva da Spotify rimane all’etichetta e il 50% va alle band. Credo sia un’eccezione e che in molti casi la percentuale per gli artisti sia parecchio inferiore. Se ci pensi, il meccanismo è virtuoso: ogni volta che ascoltiamo una canzone, una piccola cifra va agli aventi diritto. Mentre ti rispondo, per esempio, io sto pagando qualcosina ai Manic Street Preachers. Il problema è che la cifra è davvero piccolissima – nell’ordine dei decimali dei decimali dei decimali di un euro – e finché la massa complessiva di utenti rimarrà quella attuale, i guadagni resteranno irrisori. Nel caso di Spotify, c’è poi anche la voce pubblicità, quella che sostiene l’abbonamento gratuito. La maggior parte dei suoi utenti (oltre quindici milioni) hanno scelto questa formula, ma si tratta più che altro di un passaggio propedeutico verso il pagamento. O almeno così spera Spotify. Molti addetti ai lavori sostengono che la sopravvivenza e lo sviluppo futuro del servizio siano legati proprio alla sua capacità di convertire il maggior numero possibile di utenti dal gratis al pagamento.

Lo streaming, semmai ci fosse ancora qualche dubbio, ha ancora di più “defisicizzato” il prodotto musica. E’ un trend che ti affascina o ti spaventa?
Di base, il nuovo spaventa. Sempre. A maggior ragione quando è travolgente e stravolgente. E’ un meccanismo psicologico automatico: il nuovo ti spinge lontano dal conosciuto, dalla confortevole routine, dagli strumenti con cui sei cresciuto e che sei stato abituato a ritenere giusti, migliori, eterni, unti dal Signore (mentre invece erano semplicemente determinati – dischi compresi – dalla tecnologia del tempo). Essendo un meccanismo naturale, anch’io ogni tanto ne sento gli effetti. Però il nuovo continua anche ad affascinarmi, soprattutto se indirizzato verso la soluzione di alcuni problemi del vecchio. Verso un miglioramento. E Spotify, sotto diversi aspetti, rende l’esperienza musicale ancora più esaltante che in passato, schiudendo orizzonti straordinari e percorsi inediti, sia nella scoperta che nella fruizione e nella condivisione di nuova musica. Questo non significa che manchino i lati oscuri. Dal semplice ed egoistico punto di vista dell’ascoltatore, ciò che mi preoccupa di più al momento è l’abbondanza. Su Spotify abbiamo a disposizione 20 milioni di canzoni: una quantità tanto splendida quanto opprimente. Un canto di sirena che – nella migliore delle ipotesi – ti fa smarrire durante l’esplorazione del catalogo. E nella peggiore, rischia di farti schiantare sugli scogli della paralisi della scelta, rendendo di fatto la tua esperienza peggiore che in passato. L’immaterialità non mi preoccupa. Nemmeno a livello affettivo: non provo nostalgia per la plastica, la carta, il vinile, il metallo o qualsiasi altro supporto. La musica rimane la musica. L’abbondanza, l’intasamento, l’effetto dell’overload digitale sul nostro organismo analogico, mi sembrano insidie più urgenti da affrontare. Con strumenti che credo – in gran parte – debbano essere ancora inventati.

Perché qualche artista rimane ancora refrattario rispetto allo streaming? Battaglia di principio o scarso interesse di tipo economico?
Spesso le due cose coincidono, ma suppongo che il 99,99% degli artisti abbandonerebbe tranquillamente vinile, cd e vecchi principi per la distribuzione digitale, se avesse la certezza di poter beneficiare di modelli di business solidi e almeno vagamente redditizi. Il problema è che “certezza” è una parola assai lontana dalla realtà attuale, in particolare nei contesti digitali. Tutto è fluido e caotico, il vecchio monomercato del supporto discografico ha lasciato spazio a centinaia di rivoli (merchandising, crowdfunding, branding, streaming, content identification system e via con la terminologia anglosassone), i neo-imprenditori non mi sembra abbiano particolari riguardi per i creatori di contenuti e gli artisti sono spaesati e spesso preferiscono rifugiarsi in quello che ai loro occhi rimane il mercato più sicuro: il disco. Dal mio punto di vista, è una scelta suicida. La stessa che viene commessa in altri ambiti, come l’editoria. Se la stragrande maggioranza degli utenti/ascoltatori/lettori si rifornisce di contenuti digitali e su sistemi (e dispositivi) alternativi al disco o alla carta, rimanere incollati ai vecchi supporti vuol dire legarsi a fasce di pubblico sempre più limitate. Con tutto il rispetto per queste fasce – a cui in parte appartengo anch’io – dal lato dell’artista/editore mi sembra la condanna a una lenta e inevitabile agonia.

Contraddizioni dei consumatori: da un lato la passione sfrenata per le librerie virtuali con milioni di canzoni in streaming, dall’altro un’impensabile impennata delle vendite di vinili. Che diavolo significa?
Io non metterei le due cose sullo stesso piano. E’ vero che il vinile è tornato a crescere molto, ma a cavallo del 2000 era praticamente scomparso ed è più semplice segnare una crescita a doppia cifra quando parti da zero. Detto ciò, nella rinnovata vitalità degli LP io non vedo tanto le contraddizioni quanto la varietà dei consumatori. Oggi hanno a disposizione più possibilità che in passato e le sfruttano tutte, anche in modo bizzarro, tipo consumando tonnellate di musica digitale e acquistando allo stesso tempo i vinili. L’essere umano è bello per questo: i suoi istinti e i suoi bisogni sono differenti. Per alcune persone ormai esistono solo fruizioni intangibili, per altre conta ancora l’idea dell’oggetto (e della sua collezione); qualcuno va in estasi scorrendo playlist su uno schermo, qualcun altro sfogliando un booklet o sentendo il fruscio di un 33 giri. Ma alla fine tutti ascoltano musica, ed è un arcobaleno di suoni, percezioni, emozioni. Meglio un mondo dove esseri imprevedibili saltano liberamente da un vinile a un MP3, da un negozio di dischi a Spotify, che uno in cui si è tutti obbligati a scegliere un unico metodo di fruizione, no? Certo, trovare gli equilibri economici è un problema. Ma su questo possiamo stare tranquilli: lo sarà sempre, nei secoli dei secoli.

Quattro anni fa hai pubblicato il libro “La musica liberata” in cui parlavi del decennio in cui cambiò tutto in termini di consumo musicale legato alle nuove tecnologie. Nel secondo decennio dei Duemila cosa dobbiamo aspettarci?
Riguardo al Web, il passaggio più interessante – da tempo annunciato, ora avviato – è proprio quello dal download allo streaming. Dal modello di iTunes (e, sulla dark side of the moon, del P2P) a quello di Spotify & Co. Siamo agli inizi, su scala globale gli utenti sono ancora pochini. Se lo streaming raggiungerà le dimensioni e la diffusione di Facebook (che di utenti ne ha oltre un miliardo), allora forse assisteremo a cambiamenti davvero imprevedibili nella natura tecnologica, industriale, culturale dell’ascoltare la musica. E del viverla e raccontarla (non dimentichiamo la dimensione social che sta germogliando attorno a Spotify). Questa transizione comporta parecchi punti interrogativi: di alcuni abbiamo già parlato, un altro è il ritorno – dopo la sostanziale anarchia degli anni zero, a base di filesharing – a una struttura più verticale e controllata della distribuzione musicale. Io non credo (e non spero) che lo streaming diventerà una sorta di metodo unico di ascoltare la musica. Spero che rimarranno ancora territori selvaggi, imprevedibili, corsari. E sono convinto che sarà lì – all’incrocio tra video, musica, social media, festival alternativi, circuiti underground, creative commons, alchimisti del remix e del mash up – che la tecnologia potrà farsi laboratorio e generare qualcosa di interessante anche dal punto di vista della creatività e dell’espressività. Spotify è un’ottima e innovativa piattaforma di distribuzione, di cui beneficiamo soprattutto noi utenti/ascoltatori. Ma la musica e l’arte in generale oggi hanno bisogno di altro, di un rinnovamento e rilancio nell’estetica e nel linguaggio. Su Spotify ci si chiede spesso “quando verranno aggiunti i Beatles?”. Ecco questo mi sembra sintomatico della sindrome da specchietto retrovisore che ha avvolto buona parte del mondo musicale contemporaneo. Noi abbiamo bisogno di addentare il futuro, non di prostrarci continuamente di fronte al passato. Basta con il ventesimo secolo, basta con la Parigi degli anni ’20, la Londra dei ’60 o il revival indie dei ’90. Deve esplodere qualcosa di nuovo. Qualcosa che usi il passato come ingrediente e non come modello. Io spero che ciò avvenga già in questo decennio (se non altro, per potermelo godere prima di diventare troppo vecchio!) e credo che, quando ciò accadrà, avrà quasi inevitabilmente forti tratti digitali. Proprio perché sono i tratti del nostro tempo.

A cura di Riccardo Marra