Home INTERVISTE Afterhours: «La cultura a Milano è solo business»

Afterhours: «La cultura a Milano è solo business»

I milanesi ammazzano il sabato è il nuovo disco degli Afterhours. Il titolo – che storpia il romanzo poliziesco di Giorgio Scerbanenco “I milanesi ammazzano al sabato”- timbra una cover in rosso tutta coltelli, mannaie e atmosfera noir. Un nuovo eclettismo per la band milanese dopo gli ultimi due album “compatti ma molto amari” ed un nuovo innesto: il violinista Rodrigo D’Erasmo, “uno dei migliori in Italia, con un suono inconfondibile, classico”. Le parole sono quelle di Manuel Agnelli, intervistato all’indomani del mini tour americano dove gli Afterhours hanno misurato la “presa” delle nuove canzoni…

Manuel, siete da poco tornati dal Nord America…
Sì, per noi è sempre speciale andare in quei posti, non per vacanza o per godere dei luoghi. Lo facciamo soprattutto per ricercare un’alternativa al tipo di emozionalità e atmosfera che c’è in Italia. Eravamo volati lì ai tempi di “Ballate per piccole iene” e ci siamo ritornati ora con “I milanesi ammazzano il sabato”. Vedi, in Italia siamo una band conosciuta – certo non come Vasco, Ligabue o i Litfiba al loro massimo – però abbiamo un pubblico di 2000 persone e riusciamo a riempire i palazzetti. Questo rende impossibile un contatto stretto con la gente, è ovvio. Negli Stati Uniti, invece, assistono massimo 200 persone a sera, un po’ come ai nostri esordi. Suoniamo in locali piccoli, raccolti, senza fare il soundcheck. Scendiamo in mezzo al pubblico senza che ci strappino via camice e cappelli. C’è una tensione completamente diversa sul palco, la gente non conosce i pezzi e tu sei te stesso, musicista puro, senza una storia alle spalle. La musica, dunque, è al centro rispetto agli show italiani dove, ad esempio, il tipo di scaletta provoca aspettative e anche delusioni che possono condizionare il concerto. Andare in America ci ha fatto riconciliare con la musica, viviamo i palchi con più leggerezza, tranquillità, perchè ora c’è “l’altra cosa”, il diversivo. Ci siamo costruiti una sincerità emotiva per non morire, per non appassire.

Quindi il contatto con un pubblico “diverso” ha segnato la composizione del nuovo album?
Più che altro ci ha dato di nuovo una libertà interiore da coltivare, una libertà vera da perseguire anche al prezzo di essere impopolari. I precedenti due dischi (“Quello che non c’è” e “Ballate per piccole iene”, ndr) erano più compatti e amari. Lo erano per l’esigenza di ricercare qualcosa di diverso, un’atmosfera più scura che marchiasse tutte le canzoni in maniera indelebile. “I milanesi ammazzano il sabato” invece ritorna a cercare un vecchio eclettismo. Anche perché siamo noi ad essere diversi, volevamo voltare pagina, spiazzando gli ascoltatori. Molti ci chiedono perchè facciamo certe cose, perchè siamo cambiati. La gente pensa che noi facciamo un disco in una maniera perchè non riusciamo a replicare quello prima. Quando è uscito “Hai paura del buio?” protestavano che non ci fosse qualcosa tipo “Dentro Marilyn”. Di “Non è per sempre” lamentavano l’assenza di una “Rapace”; quando è uscito “Quello che non c’è” molti erano scontenti per l’assenza dei chitarroni e di Xabier (Iriondo, ndr). Spero un giorno capiranno i nostri bisogni artistici.

E’ la stessa incomprensione che ha causato la famosa diatriba per il vostro album in inglese “Ballads for little hyenas”?
Si assolutamente. Non ci crederai ma comunque i fischi alle canzoni in inglese li ho presi come un atto d’amore estremo, un po’ come quando rompi le scatole alla tua ragazza, ma per amore. In realtà succede solo in Italia, intendo questo marcato provincialismo. Mi sono anche dato una spiegazione: negli ultimi quindici anni gli Afterhours sono stati – assieme ad altri gruppi – molto importanti per la maturità di certa musica italiana. Credo abbiano significato qualcosa, un’alternativa vera. Dunque il pubblico sente un’appartenenza fortissima anche se un po’ troppo soffocante. Con “Ballads” nessuno di noi aveva pensato di lasciare l’Italia o di mettersi a cantare in inglese definitivamente, però le polemiche sulle canzoni in inglese sono state continue e grottesche. La cosa importante da dire è che noi abbiamo iniziato a cantare in inglese quando ci siamo formati e poi siamo passati all’italiano, gia allora attirandoci polemiche di commercializzazione. “Volete vendere di più” – ci dicevano. Mi chiedo, perchè in Italia l’unico artista vero deve essere l’inconsapevole? Un poveretto che ha un grande genio appunto inconsapevole, che magari muore di tisi a trent’anni senza sapere che aveva avuto talento. Idea romantica e idiota.

Nel nuovo album torni a testi più criptici, ma anche ironici. Che cognizione hai della tua scrittura? Dei suoi mutamenti?
Non so fino a che punto ne ho. Pensavo di si, ma spesso ho avuto dei riscontri completamente antitetici al mio pensiero. Ad esempio tu mi dici l’opposto di quello che pensavo di aver fatto nel nuovo disco. Ovvero credevo di aver reso la mia scrittura più semplice, diretta. Forse in realtà ne “I milanesi ammazzano il sabato” sono i contenuti ad essere talmente personali, da far sembrare i pezzi particolarmente ermetici.

Un corsivo di Michele Serra su “Repubblica” parlava di Milano come città immobile, con gli stessi bar di vent’anni fa e gli stessi baristi. Sembra strano per una città viva e piena di cultura…
Sì, ma la cultura a Milano è vissuta solo come business. Si organizzano delle grandi cose che devono avere il risultato di produrre reddito. La cultura non è vissuta dalla gente. Milano è una città di grandi ignoranti, non di cultura. La gente non può fare cultura a Milano perché è imposta dall’alto: ti dicono cosa c’è, dove c’è e quando, ma non ti è lasciata la libertà, lo spazio, l’atmosfera per poter far parte della cultura, per creare, trovare spazi e prendere iniziative. Dunque ha ragione Serra per quanto riguarda l’immobilismo. A Milano solo le grosse firme e le istituzioni possono permettersi di promuovere qualcosa e comunque sempre legate alle solite quattro sorellone: la moda, il design, l’architettura, il calcio. Quindi la situazione è più drammatica di quel che sembra. La cultura non sono le mostre, il numero di concerti, non sono i grandi eventi. La cultura è come parla la gente, di che cosa parla, che cosa legge.

Perché una festival come Tora Tora! non ha avuto futuro?
E’ mancato il ricambio generazionale per cui gruppi come noi, Marlene Kuntz, Modena City Ramblers, Verdena, etc, non hanno avuto sostanziale eredità. Dietro di noi la scena in Italia s’è divisa. Le band hanno perso quella potenza organizzativa, si sono messe a limare le virgole, si sono messe a cercare di essere simili a cose d’oltre oceano, volevano suonare come Mogwai, Blonde Redhead, Mars Volta. Ma hanno perso la forza comunicativa. Fare un festival con gli stessi headliner ci sembrava grottesco… che palle! Non doveva essere un festival auto celebrativo, non volevamo stare come i vecchi al bar a parlare di noi. La mentalità in Italia condiziona tutto, non è facile da cambiare, non la cambi con un festival.

* Foto d’archivio

A cura di Riccardo Marra