Home INTERVISTE Afterhours: «Su Ballads polemiche assurde»

Afterhours: «Su Ballads polemiche assurde»

In una pausa tra una tappa e l’altra del tour italiano a supporto di “Ballads For Little Hyenas”, incontriamo (telefonicamente) Giorgio Prette, storico batterista degli Afterhours. Una interessante chiacchierata a tutto tondo sugli ultimi eventi legati alla band e sui progetti collaterali ad essa, senza dimenticarci di gettare un occhio indiscreto sul futuro.

Che cosa è successo a Piacenza? Il pubblico pare non aver apprezzato la vostra scelta di proporre i brani di “Ballate per piccole iene” in inglese… tu che cosa ne pensi a proposito?
E’ piuttosto spiacevole. Tengo subito a sottolineare che si trattava di una minoranza del pubblico… però, come spesso accade, anche una piccola parte è in grado di rovinare la serata al resto delle persone. Il discorso è molto semplice: noi come band presentiamo uno spettacolo e il pubblico paga un biglietto per andarlo a vedere. Se il concerto sarà di suo gradimento ritornerà a vederci presumibilmente, in caso contrario, non tornerà. Detto ciò resta il fatto che rivolgere dei fischi in modo assolutamente gratuito, è solo una mancanza di rispetto per quello che si sta facendo.

Secondo te c’è un caso linguistico per quanto riguarda gli Afterhours? L’utilizzo della lingua inglese sta effettivamente dividendo il pubblico italiano?
Non riesco a capire perché onestamente. Noi abbiamo pubblicato “Ballate per piccole iene” l’anno scorso e lo abbiamo portato in giro dal vivo per vari mesi. A gennaio (2006, ndr) è uscita la versione in inglese e il tour nel quale siamo attualmente impegnati sta promuovendo questo disco, quindi non capisco perché non dovremmo avere la libertà di interpretare i brani in una veste diversa. Oltretutto, i pezzi della discordia sarebbero solo sette sui venticinque previsti dalla scaletta.

Che riscontri di pubblico avete avuto dinanzi ad un’audience vergine come quella tedesca, olandese e spagnola?
C’era più gente di quella che ci aspettassimo, è stata un’esperienza davvero positiva. Sai, li è molto più facile, non conoscendoci, quello che ti viene a vedere, è un pubblico incuriosito, che vuole scoprire chi sei, senza alcuna aspettativa. Da parte nostra l’approccio allo spettacolo in se non cambia, si è solo un po’ più rilassati, ma penso che questo sia normale.

E’ stato difficile raccontarsi nel libro biografico di recente uscita (“Ballate di male e miele”, ndr)?
In realtà non è stato molto difficile, proprio perché il progetto non è nato come biografia classica, bensì come biografia discografica. Partendo da un racconto sui dischi e sui testi degli Afterhours si è arrivati a toccare il contesto nel quale questi venivano alla luce… che periodo era, che cosa succedeva, alcuni dettagli tecnici. Alla fine la discussione si è allargata e ha preso dei contorni biografici tradizionali, ma il punto di partenza non era quello.

La storica frase “Sui giovani d’oggi ci scatarro su” si sa, è uscita dalla tua bocca. Era il 1996, che cosa è cambiato rispetto ad oggi, come sono i giovani del 2006?
(Ride, ndr)… era un’espressione che era venuta fuori per scherzo, da me non era partita con nessun contenuto onestamente. Poi da li Manuel l’ha pescata e ci ha fatto sopra un testo. Sostanzialmente non era una considerazione sui giovani di dieci anni fa, si trattava di una provocazione che prendeva in considerazione anche noi stessi, un’autoanalisi. Questa domanda mi è stata già fatta, e trovo sia piuttosto difficile rispondere, perché si presta a delle generalizzazioni che non ho mai amato particolarmente, e credo sia impossibile categorizzare un generazione, ora come dieci anni fa… l’universo giovanile è talmente variegato che c’è dentro veramente di tutto.

Mi parli un po’ della tua collaborazione con Pasquale Defina?
Con Pasquale ci conosciamo da tanti anni, ed era da parecchio tempo che volevamo collaborare insieme. Nel 2005 finalmente si è presentata l’occasione per farlo: mi ha fatto ascoltare i suoi provini, a me sono piaciuti tantissimo e lui mi ha chiesto se fossi stato interessato a suonare alcune parti di batteria. Alla fine mi ci sono tuffato dentro a capofitto, e non solo ho suonato in tutti i pezzi ma ho anche partecipato alla produzione. Per me è stata un’esperienza importante, perché tutte le collaborazioni che sono esterne al progetto Afterhours sono una fonte di arricchimento incredibile, e che ti dà nuovi stimoli… non solo suoni canzoni diverse, ma lo fai con persone diverse e soprattutto puoi confrontarti con altri ruoli rispetto a quello che hai sempre rivestito all’interno della tua band. Sono molto orgoglioso di aver partecipato alla realizzazione dell’album “Atletico Defina”, tanto da essere sicuro che in futuro, io e Pasquale, lavoreremo di nuovo insieme.

In “Atletico Defina” suona anche Andrea Viti che ha recentemente lasciato gli Afterhours, cosi come aveva fatto Xabier Iriondo quattro anni fa. Come reagiscono gli Afterhours rispetto alle dipartite?
Penso che sia una cosa normale all’interno di un progetto che ha una storia cosi lunga. Sai, dopo tanti anni è possibile che per una persona cambino le esigenze e le cose importanti della vita. E’ fisiologico in questo tipo di partecipazioni decisamente lunghe. Xabier ha suonato negli Afterhours per dieci anni, Andrea per otto anni… è tanto tempo. Sarebbe preoccupante, come ho già detto altre volte, se ci fossero dei cambi di formazioni ogni sei mesi, ogni anno.

Che ricordi hai della lavorazione di “Lavorare con lentezza” di Guido Chiesa?
E’ stato molto divertente, a parte il freddo, la pioggia e il vento che abbiamo preso (ride). Era la prima volta che frequentavamo un set cinematografico, ed è molto interessante capire come funziona dall’interno, come cambia ciò che viene ripreso dal vivo rispetto a quello che si vede sullo schermo. Personalmente l’ho trovato molto più divertente di girare un videoclip.

Il prossimo album degli Afterhours chiuderà il cerchio della “trilogia del malessere” iniziata con “Quello che non c’è” e proseguita con “Ballate per piccole iene”?
Ancora i tempi sono troppo prematuri per dirlo. I dischi sono sempre figli del periodo in cui le canzoni vengono composte, lavorate ed incise, per cui determinati contorni si delineano solo sul momento. Noi non abbiamo mai pianificato a tavolino la tematica del disco.

Ultima domanda di rito, se ti dico Cibicida tu a che cosa pensi?
…qualcosa che uccide il cibo?

* Foto d’archivio

A cura di Riccardo Marra e Vittorio Bertone