Home INTERVISTE Glen Hansard: i suoni dal mondo di un folk singer irlandese

Glen Hansard: i suoni dal mondo di un folk singer irlandese

Sono le 17:00 di un martedì piovoso, fatto insolito per una Catania avvolta, almeno per un pomeriggio, da una coltre più irlandese che siciliana. All’altro capo del telefono, Glen Hansard si muove avanti e indietro nella cucina della sua casa a Dublino, alle prese con la preparazione di un infuso rilassante prima di volare in Germania e poi in Italia, dove proseguirà il suo tour. Nonostante un Oscar per la miglior canzone originale nel 2007 con Falling Slowly e una carriera discografica che dura da quasi trent’anni, Hansard è dotato di un’attitudine umana reale e tangibile. This Wild Willing, uscito lo scorso Aprile (qui la nostra recensione), ha un piglio del tutto differente rispetto ai suoi dischi precedenti e si smarca non poco dal folk romantico del cantautore irlandese. Nato lungo le strade di Parigi e registrato in Francia nei Black Box Studios, insieme al produttore David Odlum e una larga cerchia di amici e collaboratori impastati di spirito e culture diametralmente opposte, è un disco mistico e passionale, testimone involontario di cosa sia possibile realizzare quando si smette di pensare e si comincia ad ascoltare. In attesa delle date italiane in programma a brevissimo, lo abbiamo intercettato per una lunga chiacchierata incentrata sul nuovo album e i suoi significati nascosti, tra sensualità, condivisione e diritti negati, passando attraverso il patto di fratellanza che lo lega a Eddie Vedder. 

Ciao Glen, iniziamo da “This Wild Willing”, un album che è una sorta di seduta di musicoterapia: ciascun partecipante lancia una proposta musicale e aspetta che qualcun altro la accolga, interpretandola a modo suo. Parliamo di ventiquattro musicisti provenienti da culture e modi di intendere la musica completamente differenti, che si sovrappongono e giocano con un vasto vocabolario tonale. Come hai vissuto un’esperienza così piena di umanità e spunti musicali provenienti da tutto il mondo?
È nato tutto per caso quando, verso la fine del 2017, sono stato invitato a Parigi per restare lì un paio di mesi. La mia permanenza è stata apparentemente molto tranquilla: avevo una piccola stanza con una scrivania, un comodino e una finestra, all’interno di un vecchio monastero irlandese al centro della città. Il tour con Eddie Vedder era appena finito e avevo bisogno di scandire le mie giornate con una nuova routine, mi svegliavo prestissimo e alle 8:00 iniziavo a lavorare, staccando solo per un’ora e riprendendo a scrivere subito dopo. Il pomeriggio invece facevo lunghe passeggiate nel quartiere, sentivo il bisogno di stare un po’ da solo. Un cosa è certa: non avevo alcuna intenzione di incidere un altro album e, qualora fosse successo, sarebbe stato qualcosa di acustico, solo io e al massimo un pianoforte e un basso. Poi tutto è cambiato: durante la permanenza a Parigi mi sono imbattuto in diverse persone e, tra queste, l’incontro con i fratelli Khoshravesh è stato determinante. Ci siamo conosciuti a una sorta di festa multietnica, con vino e cibo persiano, a un certo punto loro hanno iniziato a improvvisare su un canto ghazal e io mi sono unito. Mentre suonavamo insieme in un contesto lontano anni luce dalla musica occidentale, mi sono reso conto di come ci fosse qualcosa di molto familiare nel linguaggio della musica che stavamo eseguendo, le linee melodiche arabe erano in qualche modo collegate a quelle irlandesi. E così è stato: eravamo quattro musicisti che erano riusciti a trovare la nostra terra di mezzo. La cosa più bella è che già mentre suonavamo ero consapevole del significato di quel momento e dell’impatto che avrebbe avuto nel mio processo creativo, così gli ho proposto di raggiungermi in studio e loro hanno accettato. Il primo giorno ci siamo posizionati tutti in cerchio ed è stato lì che ho deciso di mollare la presa e non avere il pieno controllo della situazione, non avevo alcuna intenzione di dominare o imporre le mie decisioni, volevo solo che questi musicisti suonassero insieme e che ciò che ne uscisse fuori fosse quello che poi è diventato “This Wild Willing”: un’eterogeneità di suoni.

Quando cammini per le strade di Parigi ascolti tutte le lingue del mondo e queste tracce riflettono l’incontro tra mari diversi, un infrangersi di sensazioni e influenze.

Ricordi il preciso istante in cui hai avuto la conferma che quel tipo di musica si stava evolvendo in maniera così impattante?
Sembra assurdo, ma il momento stesso in cui li ho incontrati ho avuto una fortissima percezione che la mia musica avrebbe preso una strada completamente diversa. Quello che non mi sarei mai aspettato è stato il modo in cui sono riuscito a mollare gli schemi, affidandomi al corso naturale di quei giorni. Perché la verità, Lejla, è che dovremmo fidarci più spesso delle nostre percezioni positive: quando sentiamo qualcosa dentro la dobbiamo seguire e io ero pronto ad accogliere quella sensazione del tutto sconosciuta. Durante quelle sessioni ho invitato molti musicisti a unirsi a me e per la prima volta nella mia vita ho avuto la forza di prendere e mettere da parte quello che avevo scritto, i testi e le melodie, lasciando che tutto venisse fuori in maniera naturale. A quel punto ho scelto di coordinare l’esecuzione solo di alcune tracce e, alla fine, ho scelto di inserire nella tracklist solo i pezzi che erano nati lì, in quei momenti. Quest’album è interamente frutto di improvvisazione.

This Wild Willing” è l’esempio perfetto di come culture diverse possano fondersi perfettamente: da un lato ci sei tu, la tua attitudine folk, le tue origini irlandesi, dall’altro c’è Aida Shahghasemi con il suo daf, i fratelli Khoshravesh con il kamancheh, il ney e il sitar e ancora il tocco elettronico di Deasy e Dunk Murphy. È un’esperienza densa di significati, specialmente in questo periodo storico…
È vero e ti dirò di più: è stato molto importante per me rappresentare l’interculturalità, come se fosse un eco di Parigi. Dublino è una città di bianchi, io sono nato e cresciuto lì e quando sono arrivato a Parigi è stato straordinario vedere insieme tutte quelle nazionalità: algerini, persiani, africani coesistono nello stesso posto e nello stesso momento e per me, questo disco, rispecchia la mia permanenza lì. Quando cammini per le strade di Parigi ascolti tutte le lingue del mondo e queste tracce riflettono l’incontro tra mari diversi, un infrangersi di sensazioni e influenze. Ancora ora, quando riascolto una a caso tra quelle tracce del disco, riesco ancora a percepire la sensazione di quei giorni. Un luogo marchia a fuoco un disco.

Si percepisce un forte senso di erotismo in molte tracce del disco. Mi sono sempre chiesta se fosse una mia percezione o se invece fosse intenzionale…
Non si tratta solo di una tua impressione, volevo che si percepisse quel tipo di sensazione, l’album è molto erotico. Non sono il primo a dirlo, ma Parigi è un luogo molto sensuale, lì mi sono sentito come attratto e trascinato dai ritmi, dal groove e dallo spirito di un posto così intimo. Ho colto l’erotismo della musica per le strade, mi sentivo rapito da quel posto, ero sedotto da qualcosa che nasceva dentro di me e che, al contempo, proveniva dall’esterno. E ho fatto in modo che anche i testi riflettessero questa sensualità.

Se dovessi salvare una e una sola traccia, quale sarebbe e perché?
Questa è una domanda problematica! In realtà sceglierei tracce diverse per motivi differenti, ma se dovessi salvarne solo una sarebbe I’ll Be You, Be Me. Se poi fossi costretto a tenerne con me una e una soltanto, allora sarebbe Weight Of The World, una traccia lunga, meditativa e indefinibile perché incarna più stili e tutti diversi. Adoro questo pezzo, soprattutto perché nasce e finisce sul momento, non l’abbiamo mai ritoccata o modificata, quello che tu ascolti nel disco è esattamente quello che è successo lì dentro lo studio di registrazione ed è rarissimo che possa capitare una cosa del genere. Amo ricordare quel momento.

La scorsa estate, al Firenze Rocks, ero curiosa di sentire come avresti trasposto il disco in una dimensione semi acustica e devo dire che ne è venuta fuori un’esibizione estremamente energica. Com’è stato assumerti, da solo, il peso di una tale moltitudine di suoni e atmosfere?
È stato molto difficile riuscire a trasporre tutto quello che avevo vissuto in studio in chiave acustica; mi sono divertito a suonare le mie canzoni da solo con la chitarra e ho fatto del mio meglio per restituire qualcosa che si avvicinasse a quelle sensazioni. A volte capita di esibirmi di fronte a un pubblico più vasto di quanto penso che le mie canzoni possano riuscire a riunire, e in quei casi raggiungere tutti solo con la chitarra è una battaglia ad armi impari. Ma cerco sempre di dare tutto me stesso.

La prima volta che ci siamo incrociati è stato nel 2017 a Taormina. Il Teatro Antico e il palco del Firenze Rocks sono due dimensioni live completamente diverse, quale di queste ti mette più a tuo agio e ti fa pensare “stasera posso fare qualcosa di eccezionale”?
Ogni sera può essere perfetta per sentirti te stesso e fare cose incredibili. Tra i due palchi che hai citato tu, il Teatro Antico di Taormina è stato uno dei più belli della mia vita. Penso che se riesci a vedere ogni singolo volto del tuo pubblico e quel volto è in grado di vedere te, hai più possibilità di metterti in comunicazione. Nei grandi live si guarda spesso in direzioni differenti ed è più facile distrarsi, a Taormina sono riuscito a percepire perfettamente il pubblico ed è stato uno spettacolo stupendo. Ad ogni modo, non sono un buon giudice delle mie perfomance e d’altronde non posso imporre il mio umore personale, il mio lavoro è quello di fare il miglior live possibile, con quel pubblico e in quel preciso momento, cercando di essere presente e comunicativo.

Io sono estremamente fortunato, prima di tutto perché sono un musicista e posso esibirmi dove voglio, posso cantare e suonare di fronte a regnanti o ai piedi di un senza tetto, sentendomi a casa in entrambi i contesti.

Quella sera io c’ero e penso che fosse impossibile non percepire un legame tra noi e te, tra quello che cantavi e ciò che arrivava in platea.
Ti ringrazio e sono molto felice che durante quel live si sia realizzata una forte alchimia ma Lejla, credimi, ci sono serate in cui sali sul palco e ti accorgi che è davvero difficile! È qualcosa che può succedere, è umano.

Essere un artista di strada significa essere in costante movimento, tu nasci come busker e in fondo lo sei a tutt’oggi. Come vivi la tua libertà di circolazione, un diritto che molti danno per scontato ma precluso a chi ha la sfortuna di nascere nella parte oscura del mondo?
Hai ragione, è un diritto che diamo spesso per scontato. Io sono estremamente fortunato, prima di tutto perché sono un musicista e posso esibirmi dove voglio, posso cantare e suonare di fronte a regnanti o ai piedi di un senza tetto, sentendomi a casa in entrambi i contesti. Sono un privilegiato, lo so, sono bianco e irlandese e posso viaggiare in massima libertà. Non è un problema raggiungere l’Australia, l’America o l’India e ottenere un visto, la maggior parte delle volte per noi è solo una formalità. I musicisti iraniani con cui ho suonato hanno avuto molte difficoltà a ottenere le autorizzazioni necessarie per potersi spostare, queste restrizioni sono spesso frutto di ignoranza e razzismo e credo solo che sia una cosa molto triste.

Hai passato gli ultimi tre anni in tournée con Eddie Vedder, artista straordinario e tuo grande amico. Mi chiedevo se il vostro rapporto, tanto umano quanto artistico, possa avervi influenzati reciprocamente…
Assolutamente sì, il nostro rapporto ha fatto crescere entrambi. Eddie canta in maniera straordinaria e io mentre lo ascoltavo esibirsi ho modificato il mio modo di cantare. Dall’altro lato, osservando me lui ha migliorato la sua tecnica con la chitarra! Eddie è molto competitivo (ride, ndr) e mentre siamo in tour cerca sempre di suonare più velocemente di me! Alla fine di tutto, credo che la nostra amicizia ci abbia reso dei musicisti migliori. Un’altra cosa che amo di Eddie è il suo senso melodico nella scrittura, si tratta di una qualità insolita. Durante i tour abbiamo anche lavorato su alcuni pezzi insieme e chissà che un giorno non decidiamo di farci qualcosa… Eddie Vedder è un ottimo amico e un uomo dotato di uno straordinario senso di umanità, amo la sua intensità nel percepire le cose.

Catanese, studi apparentemente molto poco creativi (la Giurisprudenza in realtà dà molto spazio alla fantasia e all'invenzione). Musicopatica per passione, purtroppo non ha ereditato l'eleganza sonora del fratello musicista; in compenso pianifica scelte di vita indossando gli auricolari.