Home INTERVISTE Jennifer Gentle – “Il nostro debito con Syd Barrett”

Jennifer Gentle – “Il nostro debito con Syd Barrett”

Marzo 2007: Tra le poche, pochissime, band italiane a fregiarsi di un contratto con una etichetta straniera, nel caso specifico niente poco di meno che l’americana Sub Pop, i Jennifer Gentle sono fra le realtà più interessanti dell’intero panorama alternativo italiano. Il Cibicida ha incontrato il cantante e chitarrista Marco Fasolo per una chiacchierata virtuale che ripercorre, dagli inizi con la SillyBoy ad oggi nel “post Valende”, il percorso artistico della band.

Domanda: Partiamo dalle origini, ovvero SillyBoy. Da dove è nata l’esigenza di mettere in piedi una propria etichetta? L’intento principale era quello di autoprodursi per riuscire a pubblicare qualcosa o magari l’obiettivo iniziale era quello di dare spazio ad altre realtà indipendenti ed emergenti?
Marco: E’ nata più che altro per necessità. All’epoca del primo disco i JG erano stati contattati da un’etichetta italiana, che però dopo aver sentito il risultato finale aveva chiesto di rifare le registrazioni e di modificare l’impostazione generale del disco. Abbiamo preferito fare da noi, piuttosto che snaturare quelle che erano le nostre idee sull’album: una scelta ingenua, ma che alla lunga ha pagato. Una volta nata, SillyBoy è stata per un po’ la casa dei JG: abbiamo pubblicato anche qualche progetto parallelo, come il tributo a Battiato, ma non si tratta comunque di una vera etichetta. Non abbiamo né il tempo né la disponibilità economica per poterla seguire seriamente.

Domanda: Vi avranno fatto mille domande sulla Sub Pop, e neanche io (mi scuserete per questo) mi esimerò dal farlo: come ci si sente ad incidere per la stessa etichetta che ha lanciato Nirvana, Mudhoney, Soundgarden e chissà quanti altri “mostri” del rock alternativo? Credete vi abbiano scelto per un motivo di “mercato” che va oltre il gusto personale di chi vi ha selezionati e contattati?
Marco: Dubito che i JG potranno mai incidere positivamente sul bilancio di Sub Pop come le bands che citi nella domanda. So che piacciamo molto a Jonathan Poneman e un paio di altre persone dell’etichetta, credo che la scelta sia stata basata essenzialmente su questo.

Domanda: Lavorare ed incidere per la Sub Pop vi ha in qualche modo messo sotto pressione, modificando il vostro ormai collaudato modus operandi nel creare musica?
Marco: Assolutamente no. Il paradosso è che Sub Pop ci fa lavorare nella più totale libertà mentre, come ti dicevo, abbiamo avuto esperienze non proprio positive con etichette italiane molto più piccole. Quelli di Sub Pop avevano i nostri album precedenti, sapevano a cosa andavano incontro quando ci hanno scritturato. La pressione c’è, ma è autoinflitta: siamo noi che, se possibile, cerchiamo di fare disco dopo disco un altro passo in avanti.

Domanda: Dagli esordi a “Valende”, nonostante una evidente crescita compositiva che vi ha portato ad un sound più corposo, il filo conduttore della vostra musica sono sempre state le venature sixties. Non avete pensato neanche per un attimo di apparire troppo, come dire, “vintage”?
Marco: Direi proprio di no. I Jennifer Gentle sono senz’altro influenzati dagli anni Sessanta e riconosciamo sin dal nome un debito che abbiamo nei confronti di Syd Barrett (ma non solo). Penso però che ci sia una cifra personale nella nostra musica – forse non sarà in linea con i tempi, ma almeno cerchiamo di tenerci lontano dal mare magnum delle mode che vanno e vengono. Quanto al discorso delle influenze, non vedo perché si debba cercare il “nuovo” ad ogni costo: nel jazz il senso della tradizione è molto importante. Ti serve a ricordare da dove vieni e rende più chiare le idee sul dove andare.

Domanda: Le venature lisergiche, caratteristiche della psichedelica, in “Valende” hanno cominciato a lasciare spazio anche ad altre formule sonore. E’ un processo evolutivo che avete intenzione di continuare nei vostri prossimi lavori? Cosa devono aspettarsi dal futuro i vostri ammiratori?
Marco: Il prossimo disco è davvero poco psichedelico, o almeno lo è in modo molto poco tradizionale. Ogni album nasce intorno ad un’idea di suono e di costruzione dei brani: le nuove canzoni sono in qualche modo abbastanza diverse dalle precedenti, nel senso che sono ancora più Jennifer Gentle. E’ un album molto più cupo e intricato: direi anche che è molto più europeo, meno legato al pop anglo-americano. Lo so che sa di frase fatta, ma credo davvero che sarà di gran lunga il nostro disco migliore: magari piacerà di meno, ma è senz’altro il più personale.

Domanda: Per quale ragione avete scelto “I Do Dream You” come singolo da pubblicare?
Marco: Perché era il pezzo più immediato, non necessariamente il preferito.

Domanda: L’utilizzo di strumentazioni particolari rientra in un vostro progetto sonoro ben definito o nasce dalla semplice improvvisazione in sala prove?
Marco: Per quello che è possibile, una delle idee base in sede di registrazione è la voglia di sorprendere l’ascoltare con soluzioni che siano insieme interessanti e funzionali. Per me lavorare in studio resta il momento essenziale dell’esperienza dei JG: dal vivo ci si diverte, ma registrare è il momento dal punto di vista artistico più interessante e soddisfacente.

Domanda: Se doveste incollare “Valende” come colonna sonora di un film, quale sarebbe la pellicola adatta?
Marco: Per “Valende” non saprei. Direi che il nuovo album potrebbe essere invece la colonna sonora di un film di Mario Bava, o del primo Polanski. Qualcosa di oscuro e grottesco, insomma.

Domanda: Un nome: Makoto Kawabata. Come lavora? E com’è lavorare con lui?
Marco: Makoto è un gran musicista e una persona notevole. Tra l’altro ci ha aiutato parecchio, parlando di noi in America: nonostante tutte le immaginabili differenze culturali siamo andati subito d’accordo. Abbiamo in comune qualcosa: la totale mancanza di interesse per quella che dovrebbe essere la “musica indipendente” e direi anche un certo modo di vedere la vita.

Domanda: Qual è il vostro rapporto con la radio, sia in Italia che all’estero? Dove avete avuto più riscontri? E più in generale, capita anche a voi, come a tante altre realtà alternative italiane, di ricevere più attenzione fuori dai nostri confini?
Marco: I JG non possono essere certo definiti un gruppo di successo, però è innegabile che abbiamo un seguito maggiore negli Stati Uniti che in Italia. Di recente le cose hanno iniziato a muoversi molto bene anche in Inghilterra, dove andremo a suonare in aprile e maggio. L’Italia è difficile, per i tanti soliti motivi. All’inizio per noi è stata abbastanza dura, eravamo circondati da una buone dose di disinteresse: se non ci fosse stata la cosa di Sub Pop non so dove saremmo adesso.

Domanda: Domanda di rito: se ti dico Cibicida cosa ti viene in mente?
Marco: Una creatura mitologica!

* Foto d’archivio

A cura di Emanuele Brunetto