Home INTERVISTE Peter Hook: «Era la musica a definire Ian Curtis, non la malattia»

Peter Hook: «Era la musica a definire Ian Curtis, non la malattia»

Non si muore in primavera. È sbagliato. I cieli si aprono, c’è la brezza di Maggio. Non si dovrebbe mai morire in primavera. Ian Curtis però non ne aveva più, asfissiato dal chiuso della scatola in cui si era recluso. Quarant’anni fa. 18 Maggio 1980. Ian si lasciava alle spalle la vita. Da lì, una diaspora per i Joy Division perché veniva meno il collante. La giovane band moriva giovane lasciandosi alle spalle però una profonda eco. Perché Curtis, quando sfoderava il suo cantato baritonale, era capace di arrivare lontanissimo. Cosa sarebbe oggi Ian? Che tipo di uomo? Come avrebbe vissuto questa quarantena, lui, che scrisse di un altro tipo di isolamento, quello esistenziale, micidiale. Allo stesso tempo letterario e carnale. Come erano le canzoni dei Joy Division: fisiche e liriche. Come era lo stesso Ian: ragazzo fragile ma anche icona prima di diventarla. In questi anni non sono mancati contrasti tra chi è rimasto. La band, come detto, finì, ma la scia continuò in una specie di strascico. Il dolore fu tanto, ognuno lo interpretò a proprio modo. Peter Hook sfoggia occhi tagliati in orizzontale. Dietro nascondono un po’ di malinconia ma anche tanta voglia di fare. Tiene in vita il ricordo, Peter, si addossa il peso di una carica emotiva spesso contestata. Le parole che usa sono robuste come le corde del suo proverbiale basso. Farsi raccontare alcune storie da lui è sentire vibrare l’attacco di Transmission o l’articolato accordo di She’s Lost Control sbilenco e temibile come il passo di una tarantola. Hooky non è uno che dimentica. È per questo che domani renderà fruibile quello che, nel 2015, fu un concerto di tre ore (quasi definitivo) dedicato alla memoria dei Joy Division, suonato all’interno della Christ Church di Macclesfield (50 mila abitanti a 30 km da Manchester), parrocchia frequentata da ragazzino da Ian Curtis.

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Peter, un vero tuffo nel passato…
Sì, fu un concerto speciale che implicò tanti ricordi. L’idea di riproporlo domani è stata un’intuizione dettata dall’attuale situazione di emergenza. Con la mia band The Light, infatti, avremmo dovuto portare in giro i primi concerti della serie “Joy Division: A Celebration”. Dovevamo suonare a Sheffield giovedì, a Londra venerdì, poi a Manchester sabato e successivamente a Glasgow. E invece tutto è saltato. Così abbiamo pensato che il concerto di Macclesfield, girato dal nostro buon amico John Surdevan, meritasse di essere ripreso. Fu un momento speciale, soprattutto perché riservato a sole 500 persone. Ora potranno vederlo tutti in occasione di un anniversario importante.

Quella volta suonaste tre ore di Joy Division, praticamente tutto il repertorio della band. Come si fa a restare lucidi in certe circostanze? O forse è stato terapeutico?
In verità fu troppo snervante per essere in alcun modo terapeutico. Mi spiego: in altre occasioni avevamo già suonato tutti i pezzi dei Joy Division, ma volevo che quel live fosse qualcosa di unico, un successo. Per questo mi ha segnato emotivamente. E poi quel luogo era così evocativo… Ian aveva frequentato la chiesa di Macclesfield da bambino e da adolescente. Ed era come averlo lì, ho sentito un legame con lui, qualcosa di difficile da spiegare. Negli anni ho patito molto la sua scomparsa, quindi suonare quella musica credo faccia parte del mio tentativo di tenere vivo quanto più possibile di lui. È molto intenso e provante per me.

Quest’anno le emozioni dell’anniversario della scomparsa di Ian si uniscono a quelle dall’emergenza virus in cui siamo piombati.
Penso che tutto ciò che ci possa distrarre in questo periodo sia cosa buona, sinceramente credo che siamo ancora lontani dal trovare una vera serenità. Nel Regno Unito stiamo soffrendo terribilmente e nei giorni precedenti ho pensato molto all’Italia, con grande tristezza, per quello che avete dovuto affrontare. Sono stato a Roma giusto a Ottobre con il libro “The Hacienda” e mi sono divertito così tanto. Vi ho pensato spesso in queste settimane.

Tornando al concerto di Macclesfield, durante la messa in onda ci sarà la possibilità di fare donazioni alla Epilepsy Society.
Sì, abbiamo un rapporto di lunga data con loro. Dopo quello che è successo con Ian è stato scontato per noi organizzare con loro una raccolta benefica. 

È sempre stato un tasto dolente e si è scritto molto sull’epilessia di Curtis (con quella danza che Ian aveva inventato quasi a esorcizzarla). Ma quanto pensi sarebbe stato diverso Ian senza la malattia? O forse Ian è stato così anche per la malattia?
Penso fosse diventata parte di lui. Però, lo voglio dire: mi oppongo con forza contro chi sostiene che l’epilessia fosse la caratteristica distintiva di Ian. Per molti aspetti è per questo che sono tornato a dedicarmi alla musica dei Joy Division, perché volevo che si sapesse che erano le canzoni a definire Ian, non la sua malattia.

Ce n’è una che contiene più delle altre il senso di ciò che dici?
Sì, credo sia Atmosphere. Soprattutto l’attacco del pezzo. Quell’inizio suscita così tante emozioni, e poi è talmente intrecciato con Ian, con la sua vita che, in qualche modo, è diventato simbolico di un momento. E non solo per me, per la band o per il pubblico. Quella canzone ha assunto un ruolo più ampio nell’intera cultura popolare.



Quest’anno si celebrano anche i quarant’anni dell’uscita di “Closer”. Quanto sono vive le canzoni che contiene?
Beh, io credo siano ormai dei classici. Quello è un album di musica senza tempo.

Come descriveresti il disco con una sola parola?
Close.

Hai mai pensato cosa sarebbe stata la tua vita senza i Joy Division? 
Sì, ci ho pensato spesso. Mi sono chiesto cosa sarei stato. Sono molto orgoglioso dei Joy Division perché il nome della band non si è mai offuscato come è successo ad altri. Posso dire che le nostre canzoni sono rimaste incontaminate, immacolate, in qualche modo immuni al trascorrere di tempo e spazio. Ed è quasi una rarità nonostante, oltretutto, le circostanze tragiche che hanno messo fine al gruppo. Quando penso di aver fatto parte di quella storia, sto bene. E mi chiedo come Ian avrebbe affrontato il successo. Lui amava la band, era la sua passione. Alla fine credo che sarebbe stato contento e avrebbe seguito l’affermarsi delle nostre canzoni nel corso del tempo. 

Se fosse ancora tra noi, che uomo sarebbe Ian Curtis? Ci hai mai pensato?
Sarebbe un uomo anziano, come tutti noi.

Ma c’è qualcosa che avresti voluto dirgli e che non sei riuscito a fare?
Qualcosa da dirgli no, ma ci sono un mucchio di cose che avrei voluto domandargli.

Giovane, pizzetto, capelli lunghi. Quando avete iniziato, ti saresti aspettato di trovarti qui dopo quarant’anni a suonare questi pezzi?
Dio, no! È qualcosa che ai tempi non pensammo neanche un secondo. Ti svelo una cosa: sai qual è il momento più felice della mia storia con i Joy Division? Il 2010, ovvero quando ho incominciato a suonare di nuovo quelle canzoni. È il più felice perché ho realizzato quanto amore ci fosse ancora per la nostra musica. La gente vuole quanto più Joy Division possibile. E ancora, e ancora. 

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