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Bruce Springsteen – Western Stars

Che strani compagni di viaggio sono i pensieri sperduti, la malinconia, la solitudine, l’immaginazione. Si insinuano nella mente come serpenti e scendono a fondo, paralizzano, inquietano, fanno osservare tutto da un’altra prospettiva, un’angolazione completamente diversa da quella in cui osservano gli altri. Forse è per quella sensazione di mala siciliana, costante, avvolgente, avvinghiante che l’ascolto di Western Stars non è filato liscio come ci si aspettava.

Approcciarsi al diciannovesimo album in studio di Bruce Springsteen con la pre-comprensione tipica dello springsteeniano praticante ne influenza inevitabilmente il gusto finale, rendendone estremamente difficile l’ascolto. Springsteen è metafora di vigore in ogni suo contesto: solo, con la E Street, nelle Seeger Session, dal vivo. Esclusi gli anni ’70, ogni decennio della sua carriera è stato scandito da una parentesi solista che ha rimarcato la necessità di procedere senza nessuno al suo fianco, cercando di prestare ascolto ai suoi fantasmi invisibili, nonostante l’amore, sua madre, sua moglie, i suoi figli, la sua band, nonostante tutto: gli anni ‘80 ci regalarono “Nebraska”, i ‘90 “The Ghost Of Tom Joad”, i 2000 “Devil’s And Dust”, tre tra le sue opere migliori.

Ancora prima della parentesi “On Broadway”, Springsteen ha viaggiato solo per l’ennesima volta, pur sempre con la certezza di poter tornare a casa, e ciò che ne viene fuori spiffera un’emotività a rilascio prolungato che a dir la verità non si rivela salvifica durante tutte le tracce. Alcuni connotati stilistici ben lontani dalla classica matrice springsteeniana, il tocco di Ron Aniello (“Wrecking Ball”, “High Hopes”) e la diffusione di Hello Sunshine, There Goes My Miracle (sic!) e Tucson Train hanno stentato a far emergere le reali intenzioni di quest’album, tre proposte ibride, goffe, cariche di archi e falsetti avevano fatto temere realmente il peggio: una bruttezza alla “Lucky Town”, anche se sorretta da maggiore esperienza e da un investimento economico triplicato rispetto agli anni ‘90.

“Western Stars” è una dimensione completamente nuova per Bruce Springsteen e, a dispetto dell’accessibilità dei primi tre estratti, non è immediatamente godibile. Intendiamoci: ci sono tracce all’interno dell’album che agevolano lo skip anche al decimo ascolto, Sleepy Joe’s Café, There Goes My Miracle e Tucson Train. Altre invece non convincono in partenza ma sanno come agganciare l’attenzione dopo qualche ascolto, vedi Sundown o Hello Sunshine. Altre ancora si atteggiano esattamente all’opposto, ti bloccano ma finiscono per non convincere: The Wayfarer (peccato davvero per i cori e un fiacco intermezzo orchestrale), Hitch Hikin.

E mentre, in fase narrativa, Springsteen rivela il suo brillante acume per i dettagli, le metafore e i contrasti (un filo spinato arrugginito affacciato sulla piscina di un motel, rossetti accesi e segreti sussurrati che promette di non rivelare, bugie che scendono come corvi neri su un campo aperto, due uova crude e una spruzzata di gin per dare il via al mattino, pantofole infilate sotto il letto), l’effetto cinematico di cui si è tanto discusso è perfettamente raggiunto solo negli episodi in cui le carte migliori dell’artista del New Jersey si riuniscono per un’unica mano vincente: la voce dolce e frastagliata, la pienezza del racconto, l’orchestra, le chitarre acustiche, la pedal steel.

Questa magica congiuntura astrale, in cui realmente la magnificenza di quell’arsenale sonoro rende giustizia al racconto, si verifica nella porzione centrale di “Western Stars”: la title track, con quel solo orchestrale che riesce dove ha fallito The Wayfarer, il violino di Luis Villalobos  che avvolge Stones in una confortante spirale di malinconia, la pedal steel di Marty Rifkin che incornicia meravigliosamente la sagoma di Somewhere North Of Nashville, le dissonanze quasi impercettibili di Drive Fast (The Stuntman), il crescendo sottile di Chasin’ Wild Horses e l’eccellente conclusione, di un racconto non a lieto fine, demandata a Moonlight Motel.

Relazionarsi emotivamente a quest’album significa dargli una veste diversa durante ogni ascolto, rischiando anche di ritrovarsi distanti anni luce dalla cifra stilistica di Bruce Springsteen. Non è per nulla assodato che “Western Stars” riesca a cementificarsi come una gemma tra i suoi lavori da solista, ma il solo fatto che riesca a provocare sentimenti così tanto contrastanti, ancora a quasi 70 anni, dimostra la sua carica espressiva e, di sicuro, aiuta ad andare oltre l’imbarazzo dell’artwork.

(2019, Columbia)

01 Hitch Hikin’
02 The Wayfarer
03 Tucson Train
04 Western Stars
05 Sleepy Joe’s Café
06 Drive Fast (The Stuntman)
07 Chasin’ Wild Horses
08 Sundown
09 Somewhere North Of Nashville
10 Stones
11 There Goes My Miracle
12 Hello Sunshine
13 Moonlight Motel

IN BREVE: 3,5/5

Catanese, studi apparentemente molto poco creativi (la Giurisprudenza in realtà dà molto spazio alla fantasia e all'invenzione). Musicopatica per passione, purtroppo non ha ereditato l'eleganza sonora del fratello musicista; in compenso pianifica scelte di vita indossando gli auricolari.