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Burial – Kindred

Esistessero ancora le corti, gli illuminati regnanti di tutto il pianeta farebbero a gara tra loro per accaparrarsi William Bevan. Il quale naturalmente, uno per uno, presenterebbe a chi di dovere un garbato diniego. Mettiamola così, dunque. Giungesse pacificamente un marziano, domani, sotto gli increduli occhi del globo terracqueo, e domandasse: “ho bisogno di un artista, uno soltanto: non barate!, quello che per voi ha meglio di chiunque altro fermato e firmato la colonna sonora degli ultimi anni di vita di questa vostra Terra”, voi chi scegliereste? Ci sarebbe molto poco da stupirsi, in tal caso, se l’indice di parecchi esperti fosse rivolto verso Burial. Molto poco da ribattere, contestare. Perché proprio lui, meglio di chiunque altro, ha messo in musica la paranoia buggerata dell’ultrasocialità, le scultoree plastificazioni della strada, le verità fumose che abitano unicamente i vicoli metropolitani, la virulenza immobile del non-contatto, lo sciabordio del cloroformio e della codeina, la petrolchimica  alchemico-alcolemica dei corpi, l’assillo assente e roboante della città. Ribadendosi, di continuo, volta dopo volta – con una nuova chiave di volta. Questo splendido EP non fa eccezione. Ad un anno appena da “Sreet Halo”, Kindred spinge oltre un percorso tanto identificabile quanto una linea qualsiasi del London’s Tube sulle innumerevoli cartine in attesa, anch’esse come i passeggeri presenti, passati e futuri, ad ogni fermata. Prima stazione: la title-track; il risveglio. Apri gli occhi al mattino, abbandoni il torpore del sonno. Mangi un boccone, bevi qualcosa. Getto d’acqua, la doccia. Lo specchio. Burial è sempre Burial, Burial non è più Burial. “Kindred” è (forse) l’anno zero: una riconoscibilissima, metallica processione 2step che pur tuttavia scardina, dall’interno, la sagrestia dello stile Bevan. Seconda stazione: Loner; ovvero le luci, l’asfalto, gli incroci. Un ovattato martello synth che attraversa coi propri passi la City, poco prima affrontata soltanto dal finestrino dell’autobus. Ne mantiene la meccanica cadenza: accelera, decelera, si ferma, riparte. Raggiunge il capolinea, l’ultima stazione: Ashtray Wasp; ossia il ritorno a casa, qualunque essa sia. Quasi dodici minuti di beat funerei, sincopi incorporee, aliti nucleari. La dinamica del respiro, il cinematico compendio della capitale, la somma algebrica del pellegrinaggio quotidiano. Io non scompaio, non posso. Io sono qui, tutto questo è accaduto. Io sono qui, tutto questo è accaduto, sta accadendo, accadrà. Io sono qui, potete toccarmi. Io sono qui; e se avete un altro nome da suggerire al marziano: parlate ora o tacete per sempre.

(2012, Hyperdub Records)

01 Kindred
02 Loner
03 Ashtray Wasp

A cura di Michele Leonardi