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Deafheaven – Sunbather

Piccola premessa: se questa non è la prima recensione di Sunbather che consultate in giro, vi sarà probabilmente capitato di leggerne di ogni. Osannato ed esecrato, adornato e ferocemente spogliato, divinizzato e destituito: il secondo album dei Deafheaven da San Francisco non è certo passato sottobanco, scatenando anzi sul web una sorta di esilarante tira e molla. C’è chi li accusa di essere sporchi hipster; e chi digrigna i denti al solo pensiero che i nostri possano essere accostati al glorioso impero del metal. Un gioco tanto intellettualmente brillante, insomma, quanto quell’altro che si faceva col righello, sotto le docce dello spogliatoio, tra ragazzini in piena crisi puberale. Un gioco che è bene interrompere, almeno in questa sede, perché sia rimpiazzato da un giudizio intenzionalmente più interessante.

Reduce dal sorprendente esordio “Roads To Judah” ormai due anni or sono, il quintetto di scuderia Deathwish Inc. tenta con altalenanti risultati d’irrobustire la propria identità sonora, aprendosi lunghi squarci post-rock sopra una fra le migliori trame blackgaze esistenti. Sebbene, infatti, accostabili agli statunitensi Agalloch e alle migliori compagini affini europee (Amesoeurs, Alcest, Lantlos), i Deafheaven hanno finora creato un suono anagraficamente riconoscibilissimo, riuscendo persino nell’impresa di rendere maggiormente fruibile un boccone in genere ostico da mandare giù.

Proprio quel suono, passato sotto le accuratissime rifiniture d’un ulteriore labor limae, è oggi il punto di forza di “Sunbather” come lo era ieri di “Roads To Judah”. Lo splendido distillato di luce di Dream House ci dice immediatamente quello che i nostri sono capaci di fare: oltre nove minuti di beatitudine heavy, che si sciolgono nel dolce respiro di Irresistible. Se il giudizio, dopo la splendida cavalcata tensiva della title-track Sunbather, non può che tendere verso un capolavoro dei nostri tempi, ecco che arrivano Please Remember e Windows a rompere le uova nel paniere. Più che semplici intermezzi, le due tracce in questione infrangono senza pietà la traiettoria coesiva che rese a suo tempo “Roads To Judah” un lavoro coi fiocchi. Se si aggiungono i cinque minuti introduttivi della bellissima Vertigo, poi, quer pasticciaccio brutto – ahinoi! – è bell’e servito. Nonostante certe incomprensibili lungaggini, ad ogni modo, ci pensa The Pecan Tree a far evaporare la delusione: “I am no one / I cannot love / It’s in my blood”, chiosa George Clarke prima che il pezzo si chiuda in fade out, ponendo termine ad una tra le esperienze più penetranti dell’opera.

Per chi non lo sapesse: il termine blackgaze nasce dal felice – e recente – matrimonio tra black metal e shoegaze, di certo una fra le soluzioni più edificanti che il cosmo semi-saturo del rock abbia intessuto negli ultimi dieci anni. Ora: che in questo nuovo mondo i Deafheaven abbiano preso possesso d’una zona ancora inesplorata, questo è fuor di dubbio. Ma è anche vero che, muovendosi con l’encomiabile passo di chi voleva superarsi, i californiani hanno faustianamente oltrepassato la lunghezza della propria gamba, rischiando di non rendere giustizia al loro enorme talento.

A dispetto del colore rosa che domina la copertina, “Sunbather” non vede per niente la vie en rose: è nero come la pece e gassoso come una nube, ardente di bellezza e a volte nebbioso di noia. E’ soltanto un buon disco quando poteva tiranneggiare indisturbato. Semplicemente un godibilissimo seppur confuso step up, quando l’intento era sicuramente ben altro. Bello insomma. Ma che peccato.

(2013, Deathwish)

01 Dream House
02 Irresistible
03 Sunbather
04 Please Remember
05 Vertigo
06 Windows
07 The Pecan Tree

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