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Deftones – Ohms

Qualche tempo fa, nel corso di un’intervista, Chino Moreno disse che i Deftones difficilmente avrebbero potuto permettersi di smettere di fare musica perché altrimenti non avrebbero avuto più di che vivere, lasciando così intendere come la loro carriera/discografia si fosse rivelata non sufficientemente remunerativa, nonostante almeno un paio dei loro dischi abbiano fatto letteralmente storia. Che sia più o meno realistica – e aderente ai rispettivi conti in banca – la previsione di Moreno, la sua è stata comunque un’uscita che lascia riflettere parecchio sulle dinamiche del successo, dell’apprezzamento commerciale, della resa dei concerti e, più in generale, su tutto l’andamento del comparto musica.

Nonostante ciò, i Deftones non hanno mai tirato fuori album a casaccio, buttati lì solo per giustificare redditizi tour in giro per il mondo. I Deftones lavorano la loro musica come credono sia giusto farlo e non come il loro pubblico si aspetta facciano, tanto che nel corso degli ultimi venticinque anni hanno spesso cambiato rotta, aggiustato il tiro, intrapreso sentieri impervi e fatto ritorno sui propri passi. Lasciando sempre intatte le bisettrici del proprio modo di intendere la melodia e il rumore. Ohms, che arriva a quattro anni dal precedente “Gore” (2016), ancora una volta scombina le carte sul tavolo della band di Sacramento, un po’ un’inversione a U con un’auto nuova fiammante.

Rispetto all’album del 2016, l’inversione a U sta tutta nella scelta di Moreno e soci di tornare a farsi produrre da Terry Date, già con i Deftones per i loro primi quattro lavori in studio, compreso quel diamante che risponde al nome di “White Pony” (che proprio in questo 2020 ha compiuto vent’anni, portati meravigliosamente). L’apporto di Date si sente, chiaro e lampante, perché i Deftones di “Ohms”, pur non lesinando le atmosfere rarefatte che hanno segnato gli ultimi passaggi della loro discografia (sfociati persino nel post, rock o metal che sia), suonano qui pesanti come macigni che dalle loro parti non rotolavano più da un pezzo.

L’incipit affidato a Genesis è in questo senso il bugiardino perfetto, con Stephen Carpenter libero di dare sfogo alle sue corde come non frequentemente gli è stato permesso di fare, rasoiate tremende che hanno qualcosa degli ultimi Gojira, giusto per dare un’idea di quanto siano pesanti. Moreno urla “Rebirth, rebirth, rebirth”, mentre Abe Cunningham e Sergio Vega pestano che è un piacere (in Error fanno pure meglio). Urantia e Radiant City ne sono altre istantanee, con gli attacchi elettrici spaccaossa di Carpenter che danno pieno senso al titolo stesso del disco (unità di misura della resistenza elettrica).

I riferimenti più classici della title track, che chiude il disco, fanno il paio con la polvere di granito che avvolge Headless, un cadenzato assalto all’arma bianca in cui Chino Moreno dà fondo a tutto il suo repertorio. La sua prova è esemplare, qui come in tutto il resto del disco, perché nonostante l’età non più verdissima e un’inevitabile “usura” del mezzo, dimostra di sapersi gestire alla perfezione, quando c’è da forzare e quando serve invece accompagnare le propensioni shoegaze della band. A proposito di shoegaze, il lavoro di Date si rivela qui prezioso anche nel non far perdere ai Deftones quelle particolari sfumature: lo testimonia un brano come The Spell Of Mathematics, una sorta di lunghissimo intermezzo in cui sogno e realtà si fondono.

Tra una Ceremony che è la quota new wave da sempre cara alla band e una The Link Is Dead che invece ha l’aggressività di quando li si catalogava sotto la voce “nu metal”, c’è poi Pompeji che racchiude in sé le molteplici anime dei Deftones, da quelle pesanti come il piombo a quelle leggere come l’elio, passando per due avvolgenti minuti conclusivi fatti di inserti sintetici che toccano inusuali territori ambient, un po’ la biografia del combo californiano racchiusa in neanche cinque minuti e mezzo.

I Deftones non hanno mai pubblicato un disco fuori fuoco, perché ogni album ha sempre rappresentato al meglio la loro dimensione e le loro visioni del momento, ma se “Diamond Eyes” (2010), “Koi No Yokan” (2012) o “Gore” hanno potuto legittimare qualcuno a storcere il naso, con “Ohms” li ritroviamo su livelli di perfezione compositiva, esecutiva ed emotiva che ne fanno uno dei passaggi più riusciti della storia di una band unica nel suo genere perché senza genere, che non si volta mai indietro ma controlla sempre nello specchietto retrovisore che il proprio passato stia lì a ruota. Coerenti ma mai ripetitivi, un bolide che non teme un’inversione a U a 200 km/h.

(2020, Reprise)

01 Genesis
02 Ceremony
03 Urantia
04 Error
05 The Spell Of Mathematics
06 Pompeji
07 This Link Is Dead
08 Radiant City
09 Headless
10 Ohms

IN BREVE: 4,5/5