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Gaslight Anthem – Handwritten

Non nascondiamo che l’euforia nei confronti dei Gaslight Anthem non l’abbiamo davvero mai capita. Così come non abbiamo mai compreso appieno lo smodato apprezzamento riservato loro da Bruce Springsteen, uno che – guarda un po’ – Brian Fallon e soci sembrano ripetutamente coverizzare piuttosto che omaggiare, perché se Bruce è il Boss del New Jersey loro sono allora una gang di un quartiere di una città del New Jersey. Con tutte le differenze metropolitane del caso. Infatti anche in questo Handwritten, loro quarto lavoro sulla lunga distanza, i Gaslight Anthem tirano fuori dal cilindro undici tracce impregnate fino al midollo di spirito springsteeniano, zuppe di quel rock anni ’90 – posticcio e grossolano – che venne fuori in concomitanza della morte del grunge, riservando all’ascoltatore ben poche sorprese e colpi di coda. I punti di riferimento del quartetto ancora una volta non si spostano di un centimetro dai territori sopraccitati, forti anche di una produzione affidata per la prima volta a Brendan O’Brian che – guarda un po’ – vanta in curriculum più di una casella a nome Pearl Jam, Stone Temple Pilots, Soundgarden e giusto per farla completa lo stesso Springsteen (aggiungiamo a ciò anche il salto nel mondo major, alla Mercury per la precisione). E non crediamo affatto che la scelta del produttore sia stata casuale, dato che il sound di “Handwritten” è se possibile ancor più ovattato e addomesticato all’obiettivo che nei tre precedenti lavori della band. Brani come il singolo 45, ottimo manifesto dell’intero lavoro, pagano ripetutamente e insistentemente pegno agli ascolti dei Gaslight Anthem, a livelli davvero patologici. Perché va bene un certo gusto retrò, va bene il classicismo in un ambiente troppo spesso incline alle mode passeggere e va bene anche la voce di Fallon, potente e pulita ma decisamente incolore (a tratti potrebbe tranquillamente passare per Gavin Rossdale o Scott Weiland). Ma il troppo storpia, tanto che nei momenti in cui la band prova ad accelerare i ritmi, mettendo a frutto anche gli spunti garage/punk, il risultato lascia a dir poco a desiderare: vedi la title track, Here Comes My Man, Mulholland Drive, Keepsake o Biloxi Parish (per queste ultime due vengono scomodati niente poco di meno che i Green Day). Non a caso gli episodi migliori sono le ballate come Mae o la conclusiva National Anthem, altra prerogativa – guarda un po’ – tanto di casa Vedder quanto di casa Springsteen, inspiegabilmente piazzate a fine tracklist. In definitiva questo “Handwritten” finisce per soccombere a se stesso, risucchiato in un vortice di citazionismo ed auto-citazionismo che non rende giustizia a una band che avrebbe le potenzialità tecniche (soprattutto nel suo drummer Benny Horowitz) per puntare a qualcosa in più del tributo.

(2012, Mercury)

01 45
02 Handwritten
03 Here Comes My Man
04 Mulholland Drive
05 Keepsake
06 Too Much Blood
07 Howl
08 Biloxi Parish
09 Desire
10 Mae
11 National Anthem

A cura di Emanuele Brunetto