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Gorillaz – Humanz

Ormai ci siamo abituati alla routine dei Gorillaz: qualche annetto di silenzio, poi comincia a trapelare qualche notizia di Damon Albarn e Jamie Hewlett pronti a fare qualcosa di nuovo, l’hype inizia a montare, arriva la conferma, arriva qualche teaser, l’hype aumenta, esce il primo singolo, esce l’album con due gaziliardi di ospiti, tutti sono esaltati dall’album e vissero felici e contenti.

Ma, questa volta, gli ultimi due passaggi del ciclo non si sono verificati. Questa volta il tripudio di applausi che conduce al lieto fine è una tiepida battutina di mani di alcune tra le persone che lo attendevano. E perplessi sguardi interrogativi di chi si aspettava un nuovo gioiellino di pop/hip hop/alternative rock da uno che si è costruito, con dura fatica, la reputazione di quello che non sbaglia più un colpo da anni e anni.

Potrebbe essere perché il futuro distopico disegnato da Jamie Hewlett e concepito insieme ad Albarn è in realtà meno assurdamente spaventoso di quello che sta avvenendo nel 2017? Del resto, è ormai leggenda l’aneddoto secondo cui Albarn, nella primavera del 2016, diede istruzioni a Pusha T di pensare un futuro nel quale Trump fosse presidente; giova a tal proposito ricordare che la candidatura ufficiale di Trump è di giugno 2016 e che, a quei tempi, veniva ritenuto risibile che potesse essere eletto. Ma forse quest’ipotesi è troppo ardita: del resto quanti sono quelli che ascoltano i Gorillaz per gli scenari predetti rispetto a quelli che amano il geniale blend tra Albarn e i diversi artisti di volta in volta coinvolti? Pochini, immaginiamo. È innegabile il sorpasso a destra della realtà sulla distopia, ma, in questo contesto, probabilmente non frega un cazzo a nessuno, è solo un’analisi critica ex post di chi, come spesso accade, formula un’ipotesi prima di trovare fatti che vi aderiscano e poi, al fine di dimostrare la propria ipotesi, sceglie solo i fatti che gli diano ragione.

La verità è che Humanz, molto semplicemente, non è all’altezza di quanto pubblicato fino ad oggi. Albarn spinge esageratamente il pedale sull’hip hop, senza però poter reggere il passo di Kendrik Lamar o dei Run The Jewels; inoltre, la diversità tra i vari MC ospiti ne fa un ascolto che manca di coerenza, di unità sonora, di intento – al di là di un ormai collaudato gloom di fondo che è presente sin dal primissimo singolo, “Tomorrow Comes Today”, pubblicato più di quindici anni fa. Questa incoerenza di fondo si estende a tutto l’album e persino alle ormai inevitabili bonus track della deluxe edition.

La quantità di materiale sulla quale Albarn ha lavorato (su un iPad, a quanto pare) è enorme: basti pensare che l’ottima Charger è stata ricavata da un taglia e cuci estremo di 4 (q-u-a-t-t-r-o, four, cuatro, quatre, cztery) ore di improvvisazioni vocali della sempre stravagante Grace Jones e che Albarn ha recentemente dichiarato di aver pronta un’altra quarantina di pezzi dei Gorillaz.

Potrebbe essere questo il motivo per cui latita un suono unitario, come potrebbe essere l’eterogeneità degli ospiti, che spaziano dalla veterana del soul Mavis Staples, alla citata Jones, da D.R.A.M. a Vince Staples e Popcaan (MC giamaicano la cui Saturn Barz risalta come uno dei pezzi migliori dell’album), da Jehnny Beth delle Savages a Benjamin Clementine (anche la sua Hallelujah Money è tra gli highlight). Quello che poi doveva essere l’ospite del secolo, la nemesi Noel Gallagher, si produce in un pezzo, We Got The Power, che non sfrutta il talento di nessuno dei due ex leader di due delle più mastodontiche potenze del rock anni ’90. I 50 minuti dell’album sembrano lunghi, troppo lunghi, e Albarn emerge a dar luce e unità troppo poco spesso nel corso di essi – il che non significa che non vi siano canzoni valide (anche eccellenti, a volte).

I Gorillaz, quindi, sono rimandati alla prossima (se una prossima ci sarà, immaginiamo di sì) e chissà se dalle 40 tracce pronte non esca fuori una raccolta valida che ripristini un lieto fine per tutti. Coraggio Damon, al momento un lieto fine – per quanto minuscolo – è ciò di cui il mondo ha bisogno.

(2017, Parlophone)

01 Intro: I Switched My Robot Off
02 Ascension (feat. Vince Staples)
03 Strobelite (feat. Peven Everett)
04 Saturnz Barz (feat. Popcaan)
05 Momentz (feat. De La Soul)
06 Interlude: The Non-conformist Oath
07 Submission (feat. Danny Brown & Kelela)
08 Charger (feat. Grace Jones)
09 Interlude: Elevator Going Up
10 Andromeda (feat. D.R.A.M.)
11 Busted And Blue
12 Interlude: Talk Radio
13 Carnival (feat. Anthony Hamilton)
14 Let Me Out (feat. Mavis Staples & Pusha T)
15 Interlude: Penthouse
16 Sex Murder Party (feat. Jamie Principle & Zebra Katz)
17 She’s My Collar (feat. Kali Uchis)
18 Interlude: The Elephant
19 Hallelujah Money (feat. Benjamin Clementine)
20 We Got The Power (feat. Jehnny Beth)
21 Interlude: New World
22 The Apprentice (feat. Rag’n’Bone Man, Zebra Katz & RAY BLK)
23 Halfway To The Halfway House (feat. Peven Everett)
24 Out Of Body (feat. Kilo Kish, Zebra Katz & Imani Vonshà)
25 Ticker Tape (feat. Carly Simon & Kali Uchis)
26 Circle Of Friendz (feat. Brandon Markell Holmes)

IN BREVE: 3/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.