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Jason Isbell – Something More Than Free

somethingmorethanfreeC’era un personaggio nei Simpson (nei veri Simpson, quelli di vent’anni fa) che incarnava lo stereotipo della cantante country: Lurleen Lumpkin, interpretata da Beverly D’Angelo, aveva una voce angelica, un accento marcatamente redneck e una vita sfortunata. Che diavolo c’azzecca Lurleen con Jason Isbell? Che c’entra con Something More Than Free?

Isbell, uscito dai Drive-By Truckers nei quali ha militato per un breve ma artisticamente proficuo periodo, ha avuto una carriera solista di buon successo specialmente col precedente “Southeastern”, un trionfo di critica e un discreto successo di pubblico che lo ha portato a diventare uno dei reucci del genere “Americana”. Questo suo quinto lavoro era quindi non solo molto atteso, ma pressoché destinato a fare il botto.

Caratterizzato da arrangiamenti semplici (chitarra, basso, batteria, voce che più classico di così si muore, con il fiddle della moglie Amanda Shires a dare il necessario tocco country e gli occasionali piano e mellotron ad arricchire) e da una produzione cristallina ancora una volta opera di Dave Cobb, “Something More Than Free” si muove con incedere bradipeo su sentieri conosciuti, conosciuti perché battuti ormai decine (centinaia?) di volte e in maniera più efficace, musicalmente e a livello testuale. Rispetto a “Southeastern” è più marcato l’accento pop, influenzato da Springsteen: basta sentire l’attacco del refrain di chitarra di 24 Frames (persino nell’accentazione delle sillabe) o il verso di Speed Trap Town per intuire che l’ampiamento degli orizzonti di Isbell si muove verso Billboard piuttosto che verso il Grand Ole Opry.

Ma quindi, che diamine c’entrava Lurleen? Beh, Lurleen era una divertente caricatura e in quanto tale aveva tratti giocosi e grossolani, ma nella sostanza coglieva, come solo i Simpson erano in grado di fare, il senso di ciò che il country ha sempre raccontato: la grande narrativa cafona americana, in quella maniera a un tempo diretta, autoironica e melanconica. “Work all day for some old man, sweat and break your back / Than you go home to your castle, but your queen won’t cut you slack”, cantava Lurleen, così come Hank Williams cantava “She’ll do me, she’ll do you, she’s got that kind of lovin’ / Lord, I love to hear her when she calls me sweet daddy / Such a beautiful dream / I hate to think it all over, I’ve lost my heart it seems”. Jason invece traccia degli schizzi, dei vaghi schizzi di personaggi che vagamente incedono in vaghe situazioni mediamente lacrimevoli, come in Children Of Children, la semiautobiografica storia del figlio di una madre bambina o in How To Forget, che Iddio onnipotente ci fotta se capiamo di che parla.

Con ciò non vogliamo di certo dire che per fare un buon album Isbell avrebbe dovuto trasformarsi in uno stereotipo country, tutt’altro: il problema è che quelle storie erano interessanti, che quel country era di successo perché coglieva nel segno, cosa che di certo non accade qui.

I testi non scendono in profondità, non raccontano storie con uno spessore, delineano vagamente dei contorni e, tentando forse di avere un approccio universale ai problemi che affliggono il buon Jason (che, dopo anni di alcolismo, è adesso sobrio, ma deve sempre affrontare i fantasmi che lo portavano a bere), ottengono curiosamente l’opposto effetto di essere talmente vaghi da non dire sostanzialmente nulla. E se ad un ascolto superficiale l’ascoltatore di Isbell potrebbe facilmente identificarsi in alcuni dei suoi versi, è perché sono talmente poco profondi che potrebbero essere riferiti più o meno a chiunque viva nella provincia americana, non perché siano talmente profondi da essere universali, come succedeva nei migliori lavori del Boss, ad esempio. È una pericolosa linea, labile, che solo pochissimi riescono ad attraversare, e non è il caso di questo “Something More Than Free”, che presenta dei personaggi senza volto come dei manichini.

Ad aggiungere la beffa al danno è la musica, ben prodotta ed orecchiabile, ma niente affatto originale o incisiva: un già visto e già sentito, come il ritornello di How To Forget, come l’arpeggio di Flagship, che aiutano poco il risultato complessivo. Alcuni sporadici episodi (su tutte la bluesata e vagamente acida Palmetto Rose) denotano che al ragazzo non manca di certo la classe, ma la classe non basta se non messa in pratica, se tutto suona così fottutamente già sentito. Forse questo lo aiuterà a raccogliere un più ampio pubblico, ma senz’altro non a rimanere nella storia.

(2015, Southeastern)

01 If It Takes A Lifetime
02 24 Frames
03 Flagship
04 How To Forget
05 Children Of Children
06 The Life You Chose
07 Something More Than Free
08 Speed Trap Town
09 Hudson Commodore
10 Palmetto Rose
11 To A Band That I Loved

IN BREVE: 2,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.