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Judas Priest – Firepower

Personalmente, affrontare un nuovo album dei Judas Priest è da sempre esperienza totalizzante. Sarà il peso della band in questione, per gran parte della fan base più classica i padroni assoluti del concetto di Heavy Metal, sarà il quantitativo di ore, giorni, mesi vissuti con le orecchie martellate dal suono dei metal gods, ma l’attenzione e dedizione necessaria per essere il più oggettivo e coerente possibile non sono facilmente concepibili e quantificabili. Diciotto album che dal lontano 1974 han rivestito e appesantito quel suono hard rock tipico della decade per trasformarlo in qualcosa di più solido e appuntito, cresciuto con il sentimento che solo un padre può avere nei confronti della propria creatura, sempre risoluto ma comprensivo in particolar modo nell’errore, e di abbagli i Preti ne hanno presi parecchi. Quello che viene chiesto ai Priest dei questo 2018 è che siano genitori maturi e affidabili, guida per una progenie ribelle e spesso irriconoscente fino al punto di scordarsi totalmente di cosa fosse l’heavy metal alle origini. più attitudine che virtuosismo, più status symbol che tendenza.

Firepower non ha generato la mole di aspettative del passato anche più recente. Ricordo la velata delusione al primo ascolto di “Angel Of Retribution”, doveva essere il ritorno di fuoco dopo oltre un decennio di separazione da Rob Halford, invece è stato solamente flebile fiamma che non poteva più accendere la passione del passato. Per non parlar dell’esperimento “Nostradamus”, troppo pomposo per essere sincero, e del seppur discreto “Redeemer Of Souls” aiutato in modo speciale dal fresco ingresso in formazione di Faulkner al posto di un capriccioso K.K. Downing ma comunque deficitario e poco longevo. “Firepower” non è l’incipit di una seconda giovinezza, come sovente sento dire in questi giorni di stupore, quanto più una presa di coscienza di cosa significhi essere i Preti e dell’impegno che il monicker in questione esige. È un lavoro lungo (si sfiora l’ora) e completo: mid e fast tempo si alternano a intro strumentali per convergere in una ballad, Sea Of Red, che nella sua semplicità (banalità?) riesce comunque a farsi ascoltare senza ripensamenti.

L’autocitazionismo è talvolta sfacciato ma ragionato, eccezion fatta per una combo di pezzi che meriterà menzione speciale. Rimandi a tutta l’opera priestiana sono sapientemente ritrovabili dietro ogni strofa, ogni refrain, con l’intelligenza di chi ha capito che il proprio pubblico andava soddisfatto almeno un’altra volta. Così se la diretta Flame Thrower è permeata dell’essenza NWOBHM di “Killing Machine”, i synth di Never The Heroes e il rock di No Surrender avrebbero fatto la loro discreta figura come b-side di “Turbo”, mentre Evil Never Dies possiede quella impostazione grave di un “Ram It Down” o di un “Painkiller”. Non mancano episodi più scolastici, benché di buona realizzazione. Le face tracks Firepower e Lightning Strike sono merce ormai classica dei Priest post-2000, molto apparenza e meno sostanza, e le varie Necromancer, Children Of The Sun e Lone Wolf fungono da filler di livello passabile. Riempitivi scontati in un lavoro lungo e variegato.

Ma è l’accoppiata Spectre e Traitors Gate a stupire su tutto e definire un nuovo, ulteriore, standard per il combo di Birmingham; una freschezza compositiva tale da spiazzare tutti coloro che avrebbero creduto possibile solo uno fiacco canto del cigno. Spectre è semplicemente fantastica, esempio sublime di cosa possa ancora essere l’heavy classico nel 2018. La chitarra, sottotono per tutto il platter, torna prepotente in un riffing trainante mentre il mood di tutto il pezzo, tra echi di Ozzy e King Diamond, trova un Halford più dedito alla interpretazione che al consumato tentativo di toccare vette non più raggiungibili dalle sua corde vocali. Traitors Gate è mille e una influenze: c’è l’incedere degno del power ottantiano a costruire una ritmica mutevole tra gli Iced Earth degli esordi e i Maiden più attuali; un brano che trova linfa vitale nella componente strumentale come non accadeva dai tempi di “Painkiller” e per questa ragione un trionfo senza mezze misure.

Settare le aspettative è necessario quando si sfidano i mostri sacri. Non si può chiedere ai vari Metallica, Slayer e Iron Maiden che cambino ancora una volta il corso della storia e non si deve di conseguenza vivere nella nostalgia degli ‘80s in attesa che torni qualcosa che ormai ha fatto il suo tempo. Ogni epoca ha le proprie guide e le proprie influenze, i Judas Priest attuali sono un esempio stupendo di cosa sia ancora possibile fare a 60 anni nonostante un Downing fuori dai giochi e Glenn Tipton con un mostro ben più grande da affrontare (il Parkinson). Di Firepower rimarranno una manciata di brani davvero validi e la consapevolezza che il testimone è passato di mano da tempo; non possono e mai potranno esser nuovamente determinanti per il futuro del metal. Sia agli entusiasti che ai denigratori dico: vivete questa esperienza musicale per quello che è, un buon disco di heavy metal in un lustro forse troppo estremo.

(2018, Epic)

01 Firepower
02 Lightning Strike
03 Evil Never Dies
04 Never The Heroes
05 Necromancer
06 Children Of The Sun
07 Guardians
08 Rising From Ruins
09 Flame Thrower
10 Spectre
11 Traitors Gate
12 No Surrender
13 Lone Wolf
14 Sea Of Red

IN BREVE: 3,5/5

Da sempre convinto che sia il metallo fuso a scorrere nelle sue vene, vive la sua esistenza tra ufficio, videogames, motociclette e occhiali da sole. Piemontese convinto, ama la sua barba più di se stesso. Motto: la vita è troppo breve per ascoltare brutta musica.