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Kamasi Washington – Harmony Of Difference

Venuto alla ribalta nel 2015 con lo straordinario “The Epic” e, nello stesso anno, con la collaborazione al capolavoro di Kendrik Lamar “To Pimp A Butterfly”, Kamasi è ormai il nome importante nella scena jazz mondiale. Non solo, da un punto di vista storico si può facilmente considerare quello che ha riavvicinato un pubblico “comune” al jazz, scrollandogli di dosso quell’aura di musica per pipponi con gli occhialetti.

Meno giovanilistico dei BadBadNotGood con i loro beat hip hop (altro straordinario ensemble che ha portato una ventata di freschezza alla stagnante situazione della più importante forma d’arte originale che gli Stati Uniti abbiano dato al mondo), Kamasi e i suoi straordinari compagni riescono a rimanere attuali e rilevanti a dispetto delle influenze ormai vecchie di oltre 50 anni. Questo nuovo EP, originariamente pensato e utilizzato per la Biennale 2017 del Whitney Museum Of American Art di Manhattan, parte dal concetto di “bilanciare similitudini e differenze per creare armonia” per creare una suite in sei parti, ognuna delle quali ha un suggestivo titolo che descrive i cardini dell’esperienza umana nella sua forma più armoniosa: Desire, Humility, Knowledge, Perspective, Integrity, Truth.

Accompagnato da un cortometraggio del regista A.G. Rojas e sei dipinti della sorella di Kamasi (la pittrice Amani Washington, della quale un’opera campeggia come copertina di questo mini album), Harmony Of Difference riparte dagli stilemi di “The Epic”, ma presentandoli in versione meno “epica”: laddove una gran parte del triplo album d’esordio era volutamente carica, piena, corposa, qui i pezzi sono ariosi, leggeri – seppur ad un’analisi più profonda si può notare come gli arrangiamenti non siano meno complicati – a tratti illuminati da quella sensibilità pop che rende il jazz di Kamasi così palatabile (il riff di sassofono di Humility, per fare un esempio, ricorda, anche se molto alla lontana, il riff di sassofono di “Round D Minor” di Augusto Martelli, meglio conosciuta come la sigla del programma televisivo “Grand Prix”) e riempiti dalla poliedrica caleidoscopicità della band, che gli consente di presentarsi in maniera straordinariamente credibile con la bossa nova di Integrity.

Kamasi e la fedele West Coast Get Down sono dei virtuosi dei rispettivi strumenti, non c’è dubbio; eppure ciò non sfocia nelle tipiche masturbazioni tecniche tipiche di un certo jazz, quello, per capirci, che necessitava brutalmente di essere salvato, quello che tentava di ricalcare i fasti del bebop attraverso scale riprodotte alla velocità della luce. No, il virtuosismo ogni tanto esce fuori in forma di assoli (in Humility il pianista Cameron Greaves dà prova di quanto sia valido tecnicamente con meno di 30 secondi di furia, perfettamente funzionale al pezzo), ma principalmente si rivela negli arrangiamenti, nella straordinaria capacità di mantenere un suono equilibrato e armonioso pur con quella che è una band di solisti eccellenti – che, difatti, non disdegnano di pubblicare a loro volta come band leader.

Il punto più alto dell’album è chiaramente Truth, tredici minuti nei quali si fondono i precedenti cinque pezzi (un concept usato anche da Amani Washington per i propri dipinti esposti alla Biennale), un’incredibile prova di forza del sassofonista californiano che riesce a richiamare le precedenti melodie portandole in un nuovo contesto e creando quello che è sicuramente uno dei punti più alti del jazz degli ultimi 30 anni e che non sfigura di fronte ai migliori lavori dei grandi maestri di Kamasi. Dimostrando che l’idea di fondo dell’album non era per niente una gimmick, una mascherata da proporre a una mostra di fighetti, ma una idea profonda nata da convinzioni musicali (e non solo) molto radicate in questo straordinario artista. Convinzioni, quelle dell’armonia della differenza, che al momento farebbero tutto il bene del mondo al disastroso stato della cultura occidentale.

(2017, Young Turks)

01 Desire
02 Humility
03 Knowledge
04 Perspective
05 Integrity
06 Truth

IN BREVE: 4,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.