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Kelly Lee Owens – Inner Song

“Non esistono le ‘cose note’, ma cose che sappiamo di sapere. Ci sono poi le cose che sappiamo di non sapere. Ma c’è anche l’ignoto ignoto, cioè le cose che non sappiamo di non sapere”. È così che Mark Forsyth, tra i più noti linguisti e commentatori di lingua inglese, condensa il piacere di trovare ciò che non si stava cercando, all’interno di un volumetto microscopico di una ventina di pagine, dal titolo “L’ignoto ignoto”. Questo processo di salvifica casualità può condurre a risvolti sorprendenti, come afferma lo stesso autore. Si pensi al potere della bibliomanzia nell’antica Grecia, o agli amori nati dalle antipatie, come Darcy ed Elizabeth.

Quando nel 2019 Kelly Lee Owens si approcciò alla rielaborazione di “Luminous Spaces” di Jon Hopkins si ritrovò a descrivere una situazione molto simile, affermando di aver composto quell’arrangiamento poco prima della morte di Jeanette, nonna e figura cardine nel vissuto dell’artista gallese. Affrontare il dolore anche grazie all’ascolto ripetuto di quella rielaborazione ha fatto sì che la Owens pensasse di aver composto qualcosa che non sapeva di dover scrivere ma a cui si sarebbe aggrappata con tutte le sue forze nei mesi successivi; una cura tormentata per una mente tormentata, cantava Nick Drake. Che si tratti di libri, di incontri, di geografie o di musica il concetto non cambia: la predisposizione a inseguire un flusso del tutto casuale può condurre alla rivelazione dell’ignoto ignoto.

Inner Song è la naturale brillante prosecuzione dell’esordio di Kelly Lee Owens, depurato dalle oscurità e dai vestiti arredativi malinconici. Kelly Lee Owens veste lo spazio di frequenze curative in cui ogni strato è caldo e interconnesso con tutto, la terra, la natura, la perdita e la riconquista a partire dal dolore. Una tavolozza in cui i colori lunari, azzurri e grigi gelidi simulano una realtà aumentata tonificante, come se fosse un solo ascolto fosse una spinta in un mare di acqua gelida.

Inciso tra lo studio di Daniel Avery a Londra e la sala di James Greenwood a Margate, “Inner Song” è il prodotto di anni di lavoro emotivo da parte della Owens. Una volontà, assolta solo per metà, di mettere da parte il linguaggio meta-comunicativo in favore dell’espressione verbale, abbinata alla sua scrittura evocativa e all’abilità nel creare groove elettronici dalla trama complessa, sono il mezzo con cui Owens intreccia le sue composizioni attorno a un filo tematico intimo, incentrato sulla ricerca della forza in se stessi.

On, la seconda traccia, è il filo conduttore dell’alternanza tra i suoi stati d’animo, la fine di una relazione tratteggiata da un pop onirico e ritmi muscolari nella parte finale, la riaffermazione del sé in Re-Wild (“Felt the power in me / Things are different in me / Watch your eyes open me / Watch your eyes open you”), ma soprattutto l’abilità della produttrice gallese nel creare micro cambiamenti drastici senza che l’ascoltatore se ne accorga, come succede in Night.

Sono tre i momenti che donano al disco una tattilità rara. Il primo, in apertura, una versione completamente strumentale di Weird Fishes / Arpeggi dei Radiohead, che stringe i pensieri di Thom Yorke nella morsa di synth ondulari e li accompagna in un flusso ultraterreno, senza mai perdere calore. Corner Of My Sky, la collaborazione con John Cale, corrispondente a una descrizione delle forze ultraterrene da cui ha origine il Galles, regala un’interpretazione surreale di due artisti separati da due generazioni ma legati dalle origini celtiche e da un senso leggendario per la sperimentazione. Infine Jeanette, ancora un’elegia per la nonna dell’artista, amore puro e incondizionato espresso senza testo, ma solo con rapide melodie elettroniche e frequenze oscillanti a ulteriore riprova di quanto il linguaggio non verbale sia una splendida sprezzatura dell’artista gallese.

Architetture in bianco e nero, un suono minimale, quello di Kelly Lee Owens, un disco, “Inner Song” che si erge a cura palliativa atta ad avvolgere di un mantello confortante lei stessa e chiunque voglia buttarsi alla scoperta dell’ignoto ignoto. Mark Forsyth rivolge un chiaro invito al lettore: per trovare ciò che non si sta cercando occorre uscire dalla modalità touch screen e andare a curiosare negli scaffali di librerie disordinate. Per provare, invece, a sintonizzarsi sulle frequenze curative di Kelly Lee Owens occorre un desiderio di ricerca del dolore: alienarsi per poter rivivere. La cura? Le frequenze palliative di “Inner Song”.

(2020, Smalltown Supersound)

01 Arpeggi
02 On
03 Melt!
04 Re-Wild
05 Jeanette
06 L.I.N.E.
07 Corner Of My Sky (feat. John Cale)
08 Night
09 Flow
10 Wake-Up

IN BREVE: 4/5

Catanese, studi apparentemente molto poco creativi (la Giurisprudenza in realtà dà molto spazio alla fantasia e all'invenzione). Musicopatica per passione, purtroppo non ha ereditato l'eleganza sonora del fratello musicista; in compenso pianifica scelte di vita indossando gli auricolari.