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Leon Bridges – Good Thing

“Il secondo album è sempre il più difficile della carriera di un artista”, o almeno così vuole il luogo comune citato da Caparezza nel suo fortunato singolo; ancora più difficile diventa produrre il seguito di un album incredibilmente apprezzato come è stato l’esordio di Leon Bridges, un piccolo gioiellino di retro-soul che ha scatenato improvvidi paragoni con i giganti del soul che fu come Sam Cooke e Otis Redding.

Ma i paragoni con i giganti non sono mai eccessivamente vantaggiosi, essere un secondo termine di paragone, nella musica, può essere controproducente, così come può esserlo rimanere confinati in un genere di nicchia come quello del retro-soul: dover continuare a produrre dischi tutti simili e tutti, per di più, antichi, per quanto validi, può trasformarsi in una gabbia dorata, soprattutto se sei un ragazzo di ventotto anni, eclettico, capace, estremamente talentuoso.

Leon Bridges fa una scelta a un tempo coraggiosa e commercialmente proficua: con Good Thing abbraccia un suono moderno ed estremamente raffinato, che diventa quasi totalmente pop ma tinto dei vari colori che la musica afroamericana moderna può offrire. Quindi se Lions vaga dalle parti di D’Angelo, profeta del nuovo rhythm and blues, If It Feels Good (Then It Must Be) richiama Michael Jackson passando per Bruno Mars e presenta una massima, forse diretta alla bella misteriosa, protagonista del pezzo, ma che forse è una massima più generale: “We don’t have to act so seriously”.

Questa altalena di generi – mai troppo distanti da risultare incoerente, ma mai così vicini da presentare un suono unitario – può essere attribuita alla quantità non indifferente di autori che contribuiscono a ogni singolo pezzo: salta subito all’occhio la differenza con il precedente “Coming Home” (2015), interamente scritto da Bridges con il Niles City Sound, team composto da Chris Vivion, Austin Jenkins e Joshua Block. Rispetto al debutto Jenkis e Block sono rimasti (con un contributo strumentale minore), ma si è aggiunta una pletora di autori guidati dal produttore del disco Nate Mercerau, come accade nel pop milionario da classifica. Di conseguenza “Good Thing” risulta frammentario e a volte sembra voler provare a far troppo.

Leon Bridges, però, è un interprete eccellente e dimostra un potenziale da fuoriclasse nei pezzi più sofisticati e meno danzerecci come Mrs. o la conclusiva, jazzata, Georgia To Texas e non palesa in ogni caso eccessivi punti deboli se non qualche testo banalotto (come nel caso del ritornello di Beyond, che spreca un verso eccellente con un refrain insignificante). Anche quando la produzione spinge forte sui suoni più commerciali, come in Forgive You, Leon non ha mai cadute di stile e sorregge la baracca con estrema classe. I singoli Bad Bad News e Bet Ain’t Worth The Hand poi, sembrano pezzi di un artista già navigatissimo, non di un ragazzo che sta ancora cercando di affermarsi definitivamente.

Forse “Good Thing” non è un disco qualitativamente del livello di “Coming Home”, ma certamente è un disco che dimostra come quest’artista difficilmente possa essere confinato in schemi, canoni o generi predefiniti. Con un team fisso invece che un esercito di produttori, autori e turnisti, le eccellenti potenzialità viste in quest’album potrebbero darci un capolavoro, e non un capolavoro di genere ma un capolavoro di musica moderna, rilevante, fresca.

(2018, Columbia)

01 Bet Ain’t Worth The Hand
02 Bad Bad News
03 Shy
04 Beyond
05 Forgive You
06 Lions
07 If It Feels Good (Then It Must Be)
08 You Don’t Know
09 Mrs.
10 Georgia To Texas

IN BREVE: 3,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.