Home RECENSIONI Melody’s Echo Chamber – Bon Voyage

Melody’s Echo Chamber – Bon Voyage

Ci sono voluti sei anni di attesa per rilanciare il progetto Melody’s Echo Chamber di Melody Prochet, la cantante e musicista francese che con il suo primo LP eponimo del 2012 ha ottenuto consensi unanimi di pubblico e critica che le sono valsi una lunga popolarità (perché prolungata nel tempo), che adesso cerca una sua giustificazione con la pubblicazione di Bon Voyage, il nuovo album scritto in collaborazione con Reine Fiske dei Dungen e Fredrik Swahn degli Amazing e il cui completamento arriva dopo un periodo difficile per Melody. Un grave incidente, non meglio precisato, cui ha fatto seguito un periodo di recupero fisico e spirituale presso i boschi invernali di Solna, cittadina nei dintorni di Stoccolma, un’ambientazione ideale che con la rielaborazione dell’intero processo dall’incidente fino alla guarigione ha chiaramente condizionato e ispirato i contenuti dell’album.

In questo contesto Melody si è calata in una specie di dimensione fiabesca e con la collaborazione di Fiske e Swahn, oltre che di Gustav Esjtes e Johan Holmegaard (Dungen) e di Nicholas Allbrook dei Pond, realizza un album dove quel carattere dreamy del debutto si spinge verso sonorità ancora più leggere e in qualche maniera rassicuranti. Sicuramente “Bon Voyage” è un disco di musica pop leggera, quasi ariosa, dove la componente psichedelica si può tracciare solo in quelle che sono solo alcune sfumature, mentre le principali ispirazioni si devono andare a cercare nella musica pop francese degli anni settanta (Quand Les Larmes D’un Ange Font Danser La Neige) e in quel carattere drammatico, fatalista e cinematico, un certo tepore tropicale come nel caso di Cross My Heart oppure Ver Har Du Vart, oppure qualche ornamento di carattere orientale come in Visions Of Someone Special, On A Wall Of Reflections.

Nonostante le forzature vintage, tuttavia, il suono del disco si spinge poi verso qualche sperimentalismo e sonorità più mainstream, con delle scelte compositive e negli arrangiamenti che sono tuttavia discutibili: Shirim è una sorta di pezzo dei Daft Punk, diciamo che è pure ascoltabile, ma le soluzioni in pezzi come Breathe In, Breathe Out oppure Desert Horse rimandano al peggior neo soul Made In U.S.A. e sono senza dubbio quantomeno infelici.

In definitiva, a essere sinceri, niente di nuovo sotto il sole, il disco non propone particolari contenuti e questo perché non ce ne sono. Le forme dream pop e psichedeliche del disco di debutto qui non vengono rinnegate, ma con tutta una serie di tentativi e sperimentazioni si prova a riempire una certa povertà di idee con soluzioni apparentemente stravaganti e sofisticate, ma che alla fine lasciano il tempo che trovano. Non è un disco brutt, ma sicuramente trascurabile e in caso contrario il ricordo potrebbe non coincidere esattamente con qualcosa di piacevole.

(2018, Domino / Fat Possum)

01 Cross My Heart
02 Breathe In, Breathe Out
03 Desert Horse
04 Var Har Du Vart
05 Quand Les Larmes D’un Ange Font Danser La Neige
06 Visions of Someone Special, On a Wall of Reflections
07 Shirim

IN BREVE: 2/5

Sono nato nel 1984. Internazionalista, socialista, democratico, sostenitore dei diritti civili. Ho una particolare devozione per Anton Newcombe e i Brian Jonestown Massacre. Scrivo, ho un mio progetto musicale e prima o poi finirò qualche cosa da lasciare ai posteri. Amo la fantascienza e la storia dell'evoluzione del genere umano. Tifo Inter.