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Michael Kiwanuka – KIWANUKA

Quando il giovane Michael Kiwanuka esordì, venticinquenne, nel 2012 qualcuno lo bollò come l’ennesimo esponente del retro-soul: arrangiamenti saldamente ancorati al passato, voce reminiscente di Bill Whiters, easy. E in effetti il suo primo album, “Home Again”, tradisce un po’ quello sguardo allo specchietto retrovisore che ormai è diventato una sorta di genere musicale dentro il genere musicale del soul. Ma c’era qualcosa che non tornava: un talento compositivo nel rendere familiari melodie nuove, un’accuratezza nei suoni più votata al gusto che alla ricerca, un “qualcosa”.

Questo qualcosa, a posteriori, è facile vederlo, dopo lo straordinario “Love & Hate” (2016), uno degli album migliori della decade che ormai giunge al termine. O almeno, facile per tutti tranne che per il suo autore, ancora immerso nel dubbio, nel sabotaggio di se stesso. È riuscito a trovare qualcosa di negativo pure quando la serie HBO “Big Little Lies” ha deciso di usare la sua “Cold Little Heart” come sigla che, conseguentemente, è diventata il suo pezzo più conosciuto. “Ho anche altri pezzi, sapete?”, lamentava.

Si potrebbe a questo punto pensare a uno stronzetto viziato e ingrato per il successo ottenuto, ma non si potrebbe essere più lontani dalla verità. Le rimostranze non venivano da Michael, ma da quella voce nella sua testa che, sin da quando abbandonò la Royal Academy Of Music (e con essa il sogno di diventare un chitarrista jazz), gli dice che non è bravo abbastanza. E quella voce è spesso stata fomentata dalla stupidità altrui, come quella del discografico che gli suggerì di cambiare il proprio cognome, di usare un nome d’arte, perché che cazzo è sto Kiwanuka che poi sembra che fai world music e non ti si incula nessuno?

Beh, un bel po’ di anni dopo KIWANUKA, tutto maiuscolo, è il titolo del suo terzo, eccellente album. “I won’t change my name / No matter what they call me”, dice in Hero,ma non suona come una rivincita quanto piuttosto come un’affermazione, l’affermazione del diritto di essere se stessi – “You ain’t the problem”, non sei tu il problema, come afferma nell’omonima apripista. E anche su quelli che lo apostrofavano come un emulo malriuscito di Terry Callier o Bill Withers, più che prendersi una rivincita se li è lasciati alle spalle: “KIWANUKA” è un album estremamente ambizioso ma che, come dicevamo sopra, è estremamente familiare.

Quel qualcosa che rende le melodie di Kiwanuka come persone che hai appena conosciuto, ma senti come se fossero amici da tutta la vita, qui è ancora più sorprendente dato che, con l’aiuto di Danger Mouse e di Inflo che hanno curato una produzione eccellente, ricca e vivida, Kiwanuka spazia dal soul psichedelico a echi blues e gospel, passando per funk, rock e folk in una sorta di unica, lunga sinfonia di cinquantuno minuti che si trasforma in una sorta di “What’s Going On” dei giorni nostri.

E dei giorni nostri Kiwanuka si preoccupa nel tema principale dell’album, ovvero l’accettazione del sé, con tutti i propri pregi e difetti, in un mondo violento, becero e che si è riscoperto profondamente bigotto e razzista (o che forse non ha mai smesso di esserlo). Musicalmente, Kiwanuka non ha paura dello streaming e di un mondo che vede l’album come un concetto quasi superato, i pezzi funzionano comunque se presi a sé, ma si arricchiscono se ascoltati in sequenza: l’orecchiabile e ritmata Rolling diventa un tutt’uno con la psichedelica I’ve Been Dazed, così come le due ballate conclusive (Solid Grounde Light), la prima minimalista e più intimista, l’altra dall’arrangiamento più lussurioso e più aperta e gioiosa, vivono benissimo di luce propria, ma risplendono meravigliosamente insieme.

“KIWANUKA” è un album ambiziosamente riuscito, prodotto divinamente e con un messaggio straordinario, allo stesso tempo spontaneo ed estremamente ricco nei dettagli e nella produzione. Speriamo che almeno adesso il suo autore possa finalmente zittire quella inutile voce nella sua testa, e che possa insegnare a una generazione estremamente insicura (e per questo spesso estremamente narcisista) a fare altrettanto.

(2019, Polydor / Intescope)

01 You Ain’t The Problem
02 Rolling
03 I’ve Been Dazed
04 Piano Joint (This Kind Of Love) – Intro
05 Piano Joint (This Kind Of Love)
06 Another Human Being
07 Living In Denial
08 Hero – Intro
09 Hero
10 Hard To Say Goodbye
11 Final Days
12 Interlude (Loving The People)
13 Solid Ground
14 Light

IN BREVE: 4,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.