Home RECENSIONI Rolling Stones – Blue & Lonesome

Rolling Stones – Blue & Lonesome

blueandlonesomeSembra assurdo a dirsi adesso, ma a metà anni ‘80, complici album mediocri (“Undercover” e “Dirty Work”, che in realtà definire “mediocre” è una grossa concessione) e i pessimi rapporti tra Mick e Keith, si parlava spesso, molto spesso di sciogliere gli Stones, di andare in pensione, di levarsi dal cazzo, insomma.

È chiaro che, tolta la prima ipotesi, le altre due le contemplava la stampa, ma di certo non i Glimmer Twins. Che, a dire il vero, litigavano sol perché Keith, disintossicatosi dall’eroina, voleva voce in capitolo in questioni che non lo interessavano da anni; questioni che Jagger si era abituato, con grossi sacrifici, a gestire da solo, ma che ormai amava più della musica stessa. Venne quindi “Steel Wheels” (1989), la quiete dopo la tempesta. Mediocre pure lui, non diciamoci cazzate. Ma dopo il rischio (serissimo, invero) di rottura, venne un tour milionario, e un altro ancora, e un altro ancora. “This is the beginning of the second half”, disse Keith, e tutti si fecero una bella risata di cuore. “Ridete sto cazzo”, pensò probabilmente il chitarrista, che non scherzava mica. 27 anni dopo, al 52esimo anno di carriera, dopo averli visti in Beverly Hills 90210 e nei Simpson, chi è che ride di cuore?

Ma stavolta, al 23esimo (25esimo se contiamo seguendo la discografia americana) album di studio, si torna alle origini: 12 sacrosante cover di Chicago blues, da Little Walter a Howlin’ Wolf, da Magic Sam a Memphis Slim, un qualcosa che nemmeno agli esordi si permisero di fare. Già, perché nonostante la passione per il blues (condivisa da Jagger, Richards e Brian Jones), “England’s Newest Hitmakers” (1963) era un album assolutamente attento al mercato inglese dei tempi, ricco di r’n’b, rock ‘n’roll e pop, che dimostrava un acume commerciale necessario per una band emergente e che – qualcuno lo dica a Jagger – ora non gli serve più. Adesso, passata la settantina, possono non fare attenzione al mercato, che probabilmente accoglierà comunque questo Blue & Lonesome in maniera più che degna.

Dimenticati per un momento (un momento solo, eh, che qui si lavora) i singoloni da jingle Vodafone e i tour greatest hits celebrativi con tanto di richieste dal pubblico tramite votazione sui social, Keef e Mick ci regalano quello che aspettavamo da una vita, quello che avevamo solo assaggiato nella divertita sortita sul palco di Muddy Waters nel live del 1981 al Checkerboard Lounge di Chicago: the real fucking deal, l’acqua di sorgente, una raccolta di pezzi scelti da due che il blues l’hanno vissuto, coltivato, studiato, amato, divulgato; la sottotraccia costante di cinquant’anni di carriera che mai, finora, avevano affrontato a viso aperto.

Il suono è curato da Don Was e, naturalmente, dai Glimmer Twins, ed è un suono che per una gran parte del disco rifugge ogni cura moderna, è il suono di quattro vecchi lupi (e il caro Darryl Jones, ex enfant prodige con Miles che suona con gli Stones dal 1993) in una stanza, che si scordano degli stadi con 100.000 persone e si esibiscono per stupire se stessi prima che il pubblico: un Mick in forma assolutamente strepitosa (e non per un settantenne) offre il suo cuore in mano in interpretazioni di fuoco di Blue And Lonesome, I Can’t Quit You Baby e Hate To See You Go, ricordando al mondo che il pupazzo imprenditore donnaiolo quando c’è da fare sul serio è ancora il Re come nel ’72, quando con costumini improponibili dominava la scena rock mondiale, e che se con l’armonica è secondo a qualcuno lo è forse al solo Little Walter.

Dietro di lui, una band che negli incastri di Keef e Charlie Watts tiene un groove da magone allo stomaco, che se ne fotte di rimanere fedele alla versione originale dei pezzi – del resto è di bluesman veri che parliamo, a dispetto della carriera nel pop rock degli ultimi 20 anni – e che ha buttato giù l’intero album in tre giorni, senza starci a pensare troppo, ché già sono 50 anni che ci pensiamo, porco cazzo.

E ci perdonerete se ci emozioniamo per dei vecchi che suonano pezzi di una sessantina di anni fa, ci perdonerete se non abbiamo la stessa foga, lo stesso entusiasmo nel descrivere l’ennesimo disco di scoreggine con la tastierina o di cloni di Elliott Smith, ci perdonerete se quest’album ci dà quel groppo alla gola che provi ascoltando il blues, quello vero (“picceré, il blues non è che ti fa stare meglio, serve a far star peggio chi ti ascolta, e a rimediare due soldi mentre ci stai”), ma questa potrebbe essere la chiusura del cerchio e va riconosciuta la gloria a chi, nonostante una vita incredibile, nonostante una carriera lunghissima, la più lunga, durissima, ricca di glorie e soddisfazioni ma anche di dolore e lacrime, è ancora qui, “just for the fuck of i”t, come i vecchi bluesman che trovi all’Ain’t Nothing But The Blues alla jam della domenica pomeriggio.

E se decidessero di continuare ancora, noi speriamo che non tornino mai più allo scipido pop di “A Bigger Bang”, né al rock furbastro di “Voodoo Lounge” e “Bridges To Babylon”, ma ci regalino qualcos’altro di emozionante come questo inaspettato album.

(2016, Universal)

01 Just Your Fool
02 Commit A Crime
03 Blue And Lonesome
04 All Of Your Love
05 I Gotta Go
06 Everybody Knows About My Good Thing
07 Ride ‘Em On Down
08 Hate To See You Go
09 Hoo Doo Blues
10 Little Rain
11 Just Like I Treat You
12 I Can’t Quit You Baby

IN BREVE: 4,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.