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Soundgarden – King Animal

Sappiamo tutti cosa è accaduto dopo “Down On The Upside”. Con l’eco ancora fluttuante dello sparo di Cobain e il grunge in decadenza, i Soundgarden, tacchini ripieni di successo, facevano ciao ciao con la manina e tiravano le cuoia. Per una decina di anni a tenere banco sono state le peripezie di un Cornell vittima delle sue ambizioni, che ha dato un’occhiatina a cosa stesse sotto il barile con l’abominevole “Scream” dopo averne raschiato per bene il fondo con gli Audioslave, una delle sole più eclatanti di cui il Roccherrolle serberà memoria nei secoli a venire. Appurato quindi che sappiamo tutti cosa sia successo dal 1997 a oggi, sappiamo tutti altrettanto bene che i preliminari con King Animal non sono stati dei migliori. Il petting era partito con la molle ma tremendamente radiofonica “Live To Rise”, aggravando così il sospetto che i quattro semi-dinosauri si fossero riuniti con il filantropico intento di risollevare la credibilità e l’integrità artistica del buon Cristoforo e magari per ridare una speranza di vita a un Ben Shepherd ficcatosi chissà dove. Premesso che il sottoscritto sia un accanito badmotorfingeriano, ascoltare le 13 canzoni di “King Animal” mi fa tirare un mezzo sospiro di sollievo. Solo mezzo. Perché, ve lo dico rapidamente: meglio questo che cento “Out Of Exile” (ok, ve lo ricordo, perché ve ne sarete giustamente dimenticati: è la seconda caciotta degli Audioslave) o una copia dei Nickelback fuggiti nottetempo dal reparto geriatria. Il singolazzo che apre disco e promozione è Been Away Too Long, un ruspante hard-rock che mi fa sballonzolare le chiappe e canticchiare il ritornello e pensare che, in fondo, Cornell non è quello stronzo che s’atteggiava da Beyoncé alla candeggina tre anni fa. O sì? Vabbè, partono poi l’ostinata Non-State Actor e i singulti sincopati di By Crooked Steps e affiorano piccole risonanze di “Down On The Upside”, album che “King Animal” richiama in calore e colore sonori (la produzione è del gruppo insieme ad Adam Kasper, il mixaggio di Joe Barresi). Insomma, va tutto bene passando per Blood On The Valley Floor e per la mestizia (forse un po’ ostentata) di Bones Of Birds, poi l’inevitabile calo fisiologico emerge, regnando in tutta la seconda parte: Taree per un pelo non mi fa stramazzare a terra per la noia e Black Saturday ne è sua stretta compagna di merende. Attrition resta in bilico tra il riempitivo post-adolescenziale e il non-sapevamo-cosa-mettere-nel-ritornello; Halfway There è una versione spensierata di qualche scarto di “Euphoria Morning”, in Rowling Cornelio ci riprova con lo pseudo-soul e mi fa davvero gonfiare le palle: qualcuno gli dica di piantarla con sta roba, qualcuno glielo dica, per pietà! L’unica traccia che posso salvare in coda è Eyelids Mouth, niente di che, ma il refrain si fa canticchiare o fischiettare, per chi è in grado. Preciso che, nonostante la discesa qualitativa finale, non c’è nulla di assolutamente ripugnante (a parte “Rowling”), però una più accurata selezione dei brani avrebbe solo giovato. Sediamoci dunque un attimo e confessiamocelo dritto negli occhi: avevamo bisogno di questo disco? Anche chi, anziché l’omogeneizzato, da marmocchio assumeva ingenti quantità di “Louder Than Love”, sentiva la mancanza di un nuovo album dei Soundgarden? Io personalmente no e credo che l’intero mondo della musica sarebbe sopravvissuto senza troppi patemi d’animo. Ma pur di strappare via Cristoforo Cornell dal funerale che lui stesso si celebrava a suon di schifezze per cerebrolesi, si fa questo e altro, non è vero cari Thayil e Cameron? Chi non muore, si rivende.

(2012, Universal Republic)

01 Been Away Too Long
02 Non-State Actor
03 By Crooked Steps
04 A Thousand Days Before
05 Blood On The Valley Floor
06 Bones Of Birds
07 Taree
08 Attrition
09 Black Saturday
10 Halfway There
11 Worse Dreams
12 Eyelids Mouth
13 Rowing

A cura di Marco Giarratana