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Steve Gunn – The Unseen In Between

Steve Gunn vanta una discografia molto ampia e non è sicuramente un nome nuovo per gli appassionati. Il suo nome non è passato inosservato in una quindicina di anni di pubblicazioni in cui, peraltro, ha collaborato con artisti le cui caratteristiche sono – diciamo così – eterogenee, quindi tali da raccogliere un’ampia fetta di pubblico (Sun City Girls, Ed Askew, Black Twig Pickers, Kurt Vile, Angel Olsen).

Poi li passaggio alla Matador ha fatto il resto, consacrandolo come musicista poliedrico e vero e proprio specialista dello strumento (la chitarra), che padroneggia probabilmente meglio di nomi più acclamati e cui questo album in qualche maniera lo avvicina per attitudine e per sonorità. Facile pensare del resto a Jonathan Wilson, Kurt Vile, Father John Misty o ancora Ryley Walker ascoltando The Unseen In Between, un disco di canzoni basate fondamentalmente sul suono della chitarra e scritto interamente da Steve, arrangiato e realizzato con la mano di un producer scafato come James Elkington e il sostegno del tecnico del suono Daniel Schlett.

Accompagnato da una pletora di collaboratori più o meno eccellenti, a partire dallo stesso James Elkington (che qui suona le chitarre, le tastiere, le percussioni e l’armonica) e soprattutto il bassista Tony Garnier, storico “accompagnatore” di Bob Dylan (che è come dire: “che cosa vuoi di più dalla vita?”), poi Meg Baird ai cori, Steve si conferma con questo album un musicista talentuoso e propone una collezione di canzoni nel genere folk e americana orecchiabili e che seguono quel filone sdoganato poi negli ultimi anni proprio dai dischi di J. Tillman e Jonathan Wilson.

Il disco quindi è quello che definiremmo un prodotto già bello confezionato per il lancio sul mercato e oggetto di sponsoring per un (possibile) lancio definitivo dello stesso Steve Gunn: tutte le canzoni sono oggettivamente ascoltabili (certo qualcuna è migliore delle altre, vedi New Moon in cui si evocano anche fantasmi da “Nebraska” di Bruce Springsteen) e la cosa potrebbe pure andare bene così. Però alla lunga riconosciamo scelte negli arrangiamenti che sono banali oppure scontate, persino pacchiane, con rimandi a una cultura californiana di stampo Eagles e quell’ammiccare continuo tipico del folk e dell’americana psichedelico che ha dominato la scena americana degli ultimi anni (vedi pure il successo e la svolta più cantautoriale dei The War On Drugs).

Una sequela di circostanze che fanno domandare non solo dove sia finito quel musicista che aveva un piglio anche decisamente indie rock autentico e ricco di inventiva, ma anche lo status attuale di una scena che nello scorso decennio aveva regalato grandi soddisfazioni e che adesso è veramente poco fruttifera e preconfezionata.

(2019, Matador)

01 New Moon
02 Vagabond
03 Chance
04 Stonehurst Cowboy
05 Luciano
06 New Familiar
07 Lightning Field
08 Morning Is Mended
09 Paranoid

IN BREVE: 2/5

Sono nato nel 1984. Internazionalista, socialista, democratico, sostenitore dei diritti civili. Ho una particolare devozione per Anton Newcombe e i Brian Jonestown Massacre. Scrivo, ho un mio progetto musicale e prima o poi finirò qualche cosa da lasciare ai posteri. Amo la fantascienza e la storia dell'evoluzione del genere umano. Tifo Inter.