Home RECENSIONI Sufjan Stevens – The Ascension

Sufjan Stevens – The Ascension

Francesco Petrarca, intorno alla metà del ‘300, scrive all’amico Dionigi da Borgo di San Sepolcro parlandogli della scalata del Monte Ventoso che fece con il fratello Gherardo. Il racconto epistolare che ne segue è un classico esempio di allegoria: l’ascesa come cura della sua crisi spirituale e il raggiungimento della vetta come simbolo esplicito della salvezza eterna. Quando il 30 Giugno scorso Sufjan Stevens ha annunciato il nuovo disco, The Ascension, l’associazione all’allegorica ascesa del Petrarca è stata immediata. Salvo scoprire poi che il leitmotiv concettuale del disco è un esercizio dialettico opposto: ascendere per ritornare a sé e al circostante.

Sufjan mira alla consapevolezza di sé piuttosto che alla salvezza. È la spasmodica ricerca di quest’ultima, invece, ad averlo scollegato dalla realtà, rappresentando il suo più grande cruccio. Concetto corroborato da alcuni versi della title track: “To think I was acting like a believer / When I was just angry and depressed (…) I thought I could change the world for best / I thought I was called in convocation / I thought I was sanctified and bless (…) What Now?”. “The Ascension” è il disco più politico di Stevens: c’è un’urgenza di comunicare in maniera onesta ciò che per lui rappresenta il male endemico della società in cui vive: materialismo, ipocrisia, falsi idoli. Tutto ciò caratterizza il fulcro degli idiomi popolari americani attuali, in cui Sufjan Stevens non si rivede più. Liriche d’amore e di morte sono gli strumenti con cui manifesta il bisogno di esorcizzarli, senza avere la presunzione di ergersi a predicatore.

Questa virata contenutistica ha come corollario la scelta di riporre in soffitta, per il momento, gli strumenti da cantautore folk, deviando su sintetizzatori e drum machine. I Prophet e i Tempest sono stati i suoi sodali nella genesi del disco: prodotto, arrangiato e mixato da lui con l’aiuto di James McAlister e Casey Foubert, oltre alla presenza di Bryce Dessner e Nico Muhly nel pezzo d’apertura. Questo elettropop dalla forte attitudine sperimentale, però, non è nuovo nella discografia del musicista di Detroit: già con “Enjoy Your Rabbit” (2001), “The Age Of Adz” (2010) e “Planetarium” (2017) – però in collaborazione con McAlister, Muhly e Bryce Dessner – Sufjan aveva dato dimostrazione di essere a suo agio con sonorità elettroniche. Il risultato è un disco di ottanta minuti che sciorina suoni cangianti in cui melodie pop si mescolano a intense code strumentali.

È ferocemente ispirato Sufjan e lo si era capito già dai primi singoli pubblicati: tralasciando America che fa storia a sé, considerabile quasi come una bonus track che funge da summa del disco, Video Game e Sugarsono due brani che rappresentano perfettamente l’andamento di questo lavoro. Il primo è un pezzo pop canonico con un ritornello dalla melodia circolare, in cui c’è la strisciante critica ai social media e al culto dei nuovi idoli; il secondo una stratificazione di suoni sintetici su cui si adagia un testo dalla forte attitudine innodica. L’iniziale Make Me An Offer I Cannot Refuse alterna beat crepuscolari e algidi a frenetiche divagazioni elettroniche che ricordano diversi momenti di “The Age Of Adz”.

Atmosfere più dilatate e rarefatte si respirano in Run Away With Me, che in più momenti sembra richiamare le fughe new age di “Aporia”. Se Lamentations con i suoi glitch sospesi flirta con la Warp Records, Die Happyrincorre un’estetica kraut con il suo mantra dadaista. Le dissonanze di Ativan mirano alla distorsione e all’irrequietezza, mentre Landslide rallenta i battiti in favore di scenari più dream pop. Le ritmiche diventano groovose nella doppietta Death Star / Goodbye To All That, in cui l’elettronica si mescola a beat tipici di certo r’n’b di fine anni Ottanta.

Se la fine formale è affidata alle trame sincopate e rarefatte di America, che ha i toni dell’invettiva strisciante, la fine putativa è affidata alla solennità catartica della title track. La lunga scia finale del pezzo conclusivo lascia il tempo per ripensare alla mole di parole e suoni che sono fluite nell’ora abbondante di ascolto. Il risultato è la percezione di un universo sonoro e testuale dipinto con proverbiale estro e lucido senso del presente. Un tassello importante in un canzoniere di spessore.

(2020, Asthmatic Kitty)

01 Make Me An Offer I Cannot Refuse
02 Run Away With Me
03 Video Game
04 Lamentations
05 Tell Me You Love Me
06 Die Happy
07 Ativan
08 Ursa Major
09 Landslide
10 Gilgamesh
11 Death Star
12 Goodbye To All That
13 Sugar
14 The Ascension
15 America

IN BREVE: 4/5

Nasco a S. Giorgio a Cremano (sì, come Troisi) nel 1989. Cresco e vivo da sempre a Napoli, nel suo centro storico denso di Storia e di storie. Prestato alla legge per professione, dedicato al calcio e alla musica per passione e ossessione.