
Pochi, pochissimi personaggi sono stati così straordinariamente eccezionali come Michael Archer, in arte D’Angelo. Allo stesso tempo estremamente complicato, schivo e desideroso, anelante di affetto, semplicità; tremendamente sessuale e spirituale all’estremo. D’Angelo, oltre che musicista e autore rivoluzionario, uno di quelli che nascono una volta ogni cinquant’anni, è stato una figura completamente avvolta nel mistero. Nel misconosciuto ma bellissimo documentario olandese sull’artista “Devil’s Pie”, esce fuori il ritratto di un ragazzo gentile, umile, estremamente religioso; tratti caratteriali che, uniti alla difficoltà nell’accettare le conseguenze del successo, alle umili origini in una piccola comunità incentrata sulle attività della chiesa locale e, soprattutto, a quanto rivoluzionario sia stato musicalmente il suo esordio (“Brown Sugar” del 1995, largamente indicato come l’inizio dell’era del cosiddetto “neo-soul”) e quanto incendiarie siano le sue performance dal vivo, ricorda un po’ alla lontana le vicende di un certo ragazzo di Tupelo che andò a diventare il re del rock’n’roll.
Come Elvis, non ha inventato nulla: ha semplicemente catalizzato quanto di buono c’era nelle sue influenze in una miscela esplosiva – chiaramente dalla portata differente, ma non potrebbe essere altrimenti visti i diversi momenti storici nelle vicende del rock: il Re alle origini, D’Angelo quarant’anni dopo, quando quasi tutto è stato detto in quasi tutti i modi. A differenza del ragazzo col ciuffo impomatato che veniva da Tupelo, tuttavia, ligio al dovere in studio quanto umanamente amabile, il giovane ragazzo della Virginia, legatissimo alla nonna e allo zio, non ha mai avuto un manager-padre-padrone ad imporgli il rispetto di proficui contratti. Di più, D’Angelo ha sempre contato solo su se stesso. Scriveva, suonava, produceva e cantava quasi ogni cosa abbia pubblicato, coadiuvato dai fedeli amici ?uestlove e Pino Palladino, musicisti di un livello talmente alto da potere giustificatamente dialogargli da pari; e se è sempre mancato il manager-padre-padrone a pungolarne l’attività, di riflesso mancava qualcuno a tenerne le redini. Per D’Angelo, già intento a suonare il pianoforte a soli quattro anni, l’ideale è Prince, che scrive, suona, canta e produce tutto, e così accade in “Brown Sugar”, registrato in camera sua e pubblicato a soli ventun anni, apripista di un intero movimento musicale che ridà dignità all’R&B e in un sol colpo crea interesse per artisti come Angie Stone, Lauryn Hill, Raphael Saadiq, Erykah Badu, The Roots.
Qualche presagio, intanto, fa intravedere cosa riserba il futuro: prima di diventare D’Angelo, il giovane Michael sogna costantemente Marvin Gaye e la carriera del gigante del soul lo tormenta: Gaye non seppe gestire la fama, cosa che lo portò a una grave dipendenza dalla cocaina, e soffrì molto per il contrasto tra la sensualità della “musica del diavolo” che era la sua arte e la rigidissima educazione pentecostale ricevuta. Come Gaye, anche Michael è cresciuto in una comunità di cristiani pentecostali e, come Gaye, è stato sin da subito preso come un vero e proprio messia, più che un musicista. Ma a D’Angelo la fama in sé non è che importi un granché, gli interessa la musica. Non gli interessa camminare sulle acque e, infatti, invece di sputare via album sulla cresta dell’onda per cavalcare il successo, D ragiona. Fuma, anche. Si fa un fisico perfetto grazie agli allenamenti di Mark Jenkins, personal trainer dei VIP. Ma soprattutto ragiona: di “Brown Sugar” gli piacevano più i demo che l’album finito. I cinque anni che trascorreranno tra “Brown Sugar” e “Voodoo” vengono ascritti ad un blocco dello scrittore che in realtà occupa una parte che arriva al 1997; è allora che scrive (insieme alla Stone ed al fratello, Luther Archer) Send It On, meravigliosa ballata basata su uno strumentale dei Kool & The Gang (“Sea Of Tranquillity” del 1969). Da lì in poi l’ispirazione lo colpisce e, invece che totalmente da solo come successo in “Brown Sugar”, scrive i pezzi con una band di musicisti di eccellenza, direttamente in studio, traendo le idee da lunghissime jam session di tre o quattro ore.
Predominati dalla sezione ritmica (che quando non è di Palladino/?uestlove è suonata dal titolare), i pezzi spaziano infatti nell’immaginario della musica afroamericana reinventandola, partendo dalla voce che, nonostante le straordinarie doti vocali di D’Angelo, raramente si esibisce in virtuosismi; non solo, ogni linea vocale, raramente di grosso impatto melodico, viene eseguita da una moltitudine di D’Angelo, essendo la traccia vocale ripetuta per tre o quattro volte, nonostante ciò risultando per nulla prominente rispetto alla strumentazione. “Voodoo”, come il rituale Yoruba fotografato a Cuba dallo stesso D e usato come foto nel retro di copertina, rituale concettualmente non differente dai rituali pentecostali vissuti in prima persona dal giovane Michael Archer: dove c’erano percussioni e ritmi tribali ad accompagnare la preghiera e lo spirito che entra dentro l’uomo, troviamo gospel e lo spirito santo; una connessione tra musica e spiritualità e tra le comunità afro-americane e gli antenati nel vecchio continente strappati alla loro terra per diventare schiavi. Una preghiera estremamente terrena che prende la forma del funk, del soul, del gospel, del jazz, del blues per invocare amore e gioia, ma anche per predicare sull’umiliante stato nel quale versa l’uomo così come viene espresso dal materialismo vuoto dell’hip hop e dell’R&B di fine anni ’90, materialismo al quale D’Angelo però non si sente immune, facendolo sentire ipocrita a salire sul pulpito (“Who am I to justify / All the evil in our eye / When I myself feel the high / From all that I despise?”), ed è questa costante tensione e riflessione ad informare l’album.
Il culmine arriva con Untitled (How Does It Feel), un classico pezzo soul in 6/8 che venne scelto come singolo: Untitled è chiaramente un tributo a Prince, idolo dichiarato di D’Angelo, un sensuale peana d’amore – amore eh, assai diverso dai vari inni a chiavate, collane d’oro e champagne dominanti nell’hip hop dell’epoca – nel quale il falsetto viene usato come arma letale. Ad accompagnare il singolo venne girato un video, come d’uso in un’epoca nella quale MTV era ancora dedita alla musica; il video era semplicemente una ripresa dell’artista, nudo ma tagliato ad altezza cintola, che canta il pezzo. Paul Hunter, regista del video, spiega che per convincere il riluttante D’Angelo (che secondo il manager Dominique Trenier, ideatore del video, poteva sfruttare il fisico scolpito da mesi di allenamento per diventare un sex symbol) dovette porla su un piano non strettamente sessuale:
“Quando cantavo nel coro, dopo la prova, andavamo a mangiare. Ricordo di aver visto il pastore guardare il culo di una donna una settimana e, la domenica successiva predicare di quanto fosse sbagliata la fornicazione. Questi messaggi riguardo ai piaceri della carne erano intrecciati ai piaceri del palato – parte dello stesso stufato sensuale. Perciò gli dicevo tipo pensa alle verdure di tua nonna, al profumo che faceva la sua cucina. Che sapore avevano le patate dolci ed il pollo fritto? Questo è ciò che voglio tu esprima”.
Ma il risultato, per il pubblico femminile, non fu certo di apprezzare questa dualità, né di apprezzare uno dei pezzi soul più perfetti mai composti partendo da quelli che potrebbero essere considerati cliché del genere: il timido, timorato di Dio, appassionato musicista che a quell’album (e alle meravigliose, devastanti, potentissime esibizioni dal vivo, che gli valsero l’appellativo di “R&B Jesus” da parte di Christgau) aveva dedicato una quantità di lavoro, di ricerca, di fatica intellettuale, di ore enorme, era diventato il tizio nudo e i concerti diventarono un tripudio di “take it off! take it off!” sin dai primi minuti. No, il ragazzo non reggerà che la musica diventi una barzelletta di sottofondo a uno spogliarellista, e ne uscirà emotivamente distrutto.
Lo rivedremo, come musicista, dopo quattordici anni di silenzio e di droghe, isolamento, alcool, incidenti quasi mortali. Un “Black Messiah” che, come quasi mai accade, rispetta le aspettative di una interminabile attesa con un altro album perfetto, il terzo. Non ce l’hanno portato via i demoni, ma un’infame malattia – non chiamiamola lotta, battaglia, vittoria, sconfitta, nessuna di queste puttanate, per amor del cielo – della quale, come quasi sempre con Michael Archer in arte D’Angelo, non sapevamo un cazzo. Eravamo qui, seduti come la statua della sofferenza su un cippo sepolcrale, a cercare vaticini da ogni segnale, dal pezzo nella colonna sonora di “Red Dead Redemption 2” (ormai vecchio di sei anni) o a quei cori nascosti dentro I Want You Forever, nella colonna sonora di “Il Vangelo Secondo Clarence”. Ogni tanto spuntava qualcuno “assolutamente sicuro”che il nuovo album fosse pronto e noi lì, come stronzi boccaloni, con gli occhi lucidi e il cuore pieno di gioia, esaltati perché il Messia, finalmente, era tornato di nuovo. E, ancora una volta, staremo qui ad aspettare che torni a darci la buona novella, certi che il nostro Messia non ci abbia lasciati davvero.