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Lo sguardo rivolto a Seattle dei primi Metallica dei ’90 e del loro album nero

Gli anni ’80 dei Metallica erano stati un crescendo di successo e popolarità senza pari, che li aveva portati a diventare gli alfieri di quel thrash metal che avevano contribuito a plasmare con dischi epocali come “Kill ‘Em All” (1983) e “Master Of Puppets” (1986), dischi che si erano andati a sommare ai lavori altrettanto rilevanti di altri colleghi/mostri sacri come Slayer, Megadeth e Anthrax. Ma gli eighties si stavano concludendo e il rock e le attenzioni del pubblico “heavy” iniziavano a rivolgersi verso Seattle e il fenomeno grunge, di cui tutti (band e case discografiche in primis) intravedevano chiaramente le potenzialità anche commerciali.

I Metallica di un disco come il precedente “…And Justice For All” (1988) non avrebbero certo potuto competere, troppo complessi e articolati per far breccia in un ambiente in cui invece tutto doveva suonare più scarno e diretto. La band decide così di provare ad alleggerirsi chiamando a dirigere le operazioni del nuovo album Bob Rock, produttore che aveva all’attivo lavori con band come Cult e Bon Jovi, roba decisamente più mainstream e “facile” di quanto mai fatto da James Hetfield e soci. Un cambio di prospettiva, per i Metallica, che avrebbe cambiato definitivamente anche la loro storia.

Il risultato dei quattro chiusi in studio col nuovo produttore è un disco omonimo che, complice l’artwork in total black, viene fin da subito ribattezzato come il Black Album. All’interno si sente chiaro e forte come i Metallica guardino attentamente a ciò che stava avvenendo un bel po’ di chilometri a Nord della loro California, nello stato di Washington, visto che pezzi come il singolo Enter Sandman o Sad But True, che non a caso inaugurano la tracklist, si giocano tutto su riff palesemente ispirati alla frangia più pesante del grunge, ovvero Soundgarden e Alice In Chains (lo stesso chitarrista Kirk Hammet ammetterà, tempo dopo, di aver preso spunto proprio dai riff di Kim Thayil per strutturare quelli contenuti in Enter Sandman).

Ma l’alleggerimento cercato dai Metallica non sta soltanto nella struttura dei pezzi più tirati perché, nonostante le reticenze di Hetfield (che la sentiva fin troppo personale), finisce nella tracklist anche la ballatona Nothing Else Matters, esempio più lampante, col suo impianto orchestrale, della direzione intrapresa dalla band con Bob Rock al timone. E non fu certo una scelta errata, visto che il brano si rivelerà grazie anche al suo videoclip uno dei maggiori traini per le vendite mostruose del disco (si parla di oltre 25 milioni di copie, di cui oltre 16 nei soli Stati Uniti). Da questo momento in poi la storia dei Metallica cambia, perché la band non tornerà più alle sonorità degli anni ’80 se non a sporadici sprazzi, avvalendosi ancora di Bob Rock per i successivi lavori, ovvero “Load” (1996), “ReLoad” (1997) e quel “St. Anger” (2003) che inaugurerà il nuovo millennio dei quattro.