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Nick Drake: 50 anni di Five Leaves Left

Uno sguardo perso nel vuoto, l’ennesima sigaretta consumata e un pacchetto di cartine che avverte il fumatore incallito che si è giunti quasi al termine. Era l’estate del 1968 quando un appena ventenne Nick Drake, già sotto contratto con la Island Records, cominciava a scrivere il suo primo disco, Five Leaves Left. Suonava la chitarra acustica – non se la cavava male nemmeno con il piano, il clarinetto e il sassofono – e aveva un senso dell’armonia e della sua costruzione raro. C’era un alone di solenne decadenza negli arpeggi di questo giovane ventunenne nato a Rangoon (o Yangon), in Birmania, durante uno dei trasferimenti lavorativi della famiglia in Asia – Rodney, il padre, era un ingegnere in quel periodo itinerante – poi, successivamente, ritornati in Inghilterra, nella tranquilla campagna del Tanworth, nel Warwickshire.

In Drake convivevano ispirazioni complementari, che affondavano le radici in epoche diverse ma tutte capaci di orientare lo spirito della sua poetica e della sua musica. Era affascinato dai poeti simbolisti francesi (Verlaine, Baudelaire, Rimbaud), da Dylan che due anni prima aveva dato alle stampe “Blonde On Blonde”, dal blues, dai poeti romantici inglesi, Blake e Keats su tutti. Tra scrittura e registrazioni del disco passò un anno prima della sua pubblicazione – il biennio ‘68/’69, tra l’altro, portatore di linguaggi nuovi e sovversivi – il tutto sotto la direzione del produttore Joe Boyd e l’ausilio di musicisti del calibro di Richard Thompson dei Fairport Convention, Paul Harris e Danny Thompson dei Pentangle. Senza dimenticare gli arrangiamenti per archi scritti insieme all’amico Robert Kirby. Con la sola eccezione di River Man le cui partiture furono scritte dallo scozzese Harry Robinson, già compositore di colonne sonore, che fu l’unico a sapersi destreggiare all’interno dei tempi scritturati da Drake.

“Five Leaves Left” è una successione di ricami melanconici di pura bellezza tessuti da un demiurgo abile, capace di fondere pathos e tecnicismo in un afflato unitario. Time Has Told Me è un’apertura quasi ridanciana se la si confronta con i successivi due brani, River Man e Three Hours, due pezzi sciamanici, in cui il lirismo crepuscolare del cantautore britannico ha modo di sublimarsi con sonorità più grevi e di non facile esecuzione tecnica. Way To Blue e Day Is Done proseguono su questo leitmotiv, con il secondo che è un manifesto di relativismo filosofico (”When the day is done / Down to earth then sinks / The sun / Along with everything that / Was lost and won / When the day is done”) su un arpeggio circolare e ipnotico supportato da un apparato di archi maestoso.

A cinquant’anni dalla sua pubblicazione e a quarantacinque dalla morte del suo autore (scomparso il 25 Novembre del ’74), la strofa conclusiva di Fruit Tree (”Fruit tree, fruit tree / Open your eyes to another year / They’ll all know / That you were here / When you’re gone”) continua a essere considerata dai più come foriera dell’amara previsione che di lì a cinque anni si sarebbe verificata. Cinque, dunque, come le sigarette rimaste prima della fine, con Bach sul piatto e una Luna Rosa nel destino.

DATA D’USCITA: 3 Luglio 1969
ETICHETTA: Island

Nasco a S. Giorgio a Cremano (sì, come Troisi) nel 1989. Cresco e vivo da sempre a Napoli, nel suo centro storico denso di Storia e di storie. Prestato alla legge per professione, dedicato al calcio e alla musica per passione e ossessione.

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