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Ozzy, il miglior amico che abbia mai avuto

Photo Credit: Epic Records / Sam Taylor Johnson
Photo Credit: Epic Records / Sam Taylor Johnson

Un ragazzino di Aston, sobborgo industriale della tetra Birmingham. Un ragazzino dislessico, senza un granché di speranza. Che subiva abusi dai bulli a scuola. Con un faccione simpatico, un po’ da scemo. Un ladro, perché finita la scuola non aveva altro da fare. Un ladro fottutamente scadente: una volta rubò una televisione, troppo pesante per lui, mingherlino e con le scarpe scassate, e gli cadde addosso facendosi beccare. Un’altra volta voleva rubare dei vestiti da vendere ai giovani con qualche sterlina in più di lui, ma, rincoglionito com’è sempre stato, rubò dei vestiti per bambini. Finchè lo beccarono, e il padre, che lavorava duro come del resto la madre, decise di dargli una lezione e non pagargli la cauzione. Anni dopo, in fabbrica, farà per lui, Geezer, Tony e Bill le famose croci diventate simbolo di una delle più grandi band di sempre.

Un ragazzo strano, senza un granché di speranza, che si fa due rudimentali tatuaggi di due faccine sorridenti sulle ginocchia perché odia stare solo, la solitudine gli fa schifo. Gli fa talmente tanto schifo che anche da grande, nonostante i tanti amici e una numerosa, folle famiglia, non riuscirà mai a stare con meno di decine di migliaia di persone. Ci proverà, qualche volta, ma senza successo. Fino all’ultimo secondo il suo desiderio è quello: una folla felice di gente. E non è neanche l’adorazione incondizionata per quello che ormai per sempre sarà il nostro Prince of Fucking Darkness, no. È realmente stare insieme a noi. L’unico fottuto bastardo al quale credi quando ti dice “I FUCKING LOVE YOU ALL!”, e fai bene a farlo, e hai fatto bene a farlo, perché fino all’ultimo fottuto respiro non ha potuto fare a meno di stare su quel palco a cantare con tutto quello che gli era rimasto in corpo quei pezzi che ci hanno accompagnato una vita.

Sente i Beatles, sente “She Loves You” per la prima volta a 14 anni. E non è più senza speranza. Improvvisamente la vita cambia, con poche maledettissime note. Quello che è successo a tanti di noi sentendo Supernaut o Into The Void o War Pigs o Black Sabbath o Crazy Train o ancora No More Tears, Perry Mason, Paranoid. Lui e altri tre amici cambieranno la storia della musica come quasi nessuno mai ha fatto prima o dopo di loro: vedono “I Tre Volti del Terrore” del regista italiano Mario Bava (in inglese, “Black Sabbath”) e sfruttano l’idea geniale di trasportare l’immaginario horror nel mondo musicale, creando dal nulla l’heavy metal, del quale, con la loro evidente superiorità creativa, rivoluzioneranno il corso ancora un paio di volte prima che Ozzy venga cacciato, colpevole di essere eccessivo all’interno di una band che spese 400.000 dollari di cocaina durante la registrazione del quarto album.

Ozzy ne esce distrutto. Il sogno gli sembrava finito. Del resto la sua autostima non è mai stata alta, ed era convinto che tutto quello che gli era successo fino a quel momento non se lo fosse meritato affatto. Si chiude in una stanza, e spende quel che gli era rimasto comprando droga e alcool.

E, ancora una volta, sembrava senza speranza, finchè la figlia del suo manager, la giovane Sharon Arden, non si fa carico di inventargli una carriera solista. E poi le colombe, la testa del pipistrello, le formiche sniffate coi Mötley Crüe, la pisciata su Alamo con un vestito da sposa indosso… tutte storie straordinarie, che impallidiscono rispetto a quanto musicalmente abbia lasciato. E i suoi partner come il divino Randy Rhoads. Come Zakk. Come Jake E. Lee. E ancora Sharon, la mente diabolica e geniale dietro all’enorme successo economico, dietro a idee incredibili come l’Ozzfest o come il reality tv che ci ha fatto innamorare ancora di più di questo essere umano che sembra uscito da un’allucinazione: “Bubbles? What’s fucking evil about bubbles? I’m the Prince of Fucking Darkness, Sharon!”. Impenetrabile ad ogni cazzata, ad ogni punto basso, ad ogni errore, grande o piccolo. Odiata da tanti, ma col ghigno di chi sa di essere stata – insieme poi ai suoi figli – la forza a tenere in piedi fino alla fine uno dei più straordinari frontman di sempre.

Vederlo in quel trono, privato della possibilità di saltare come un cretino e tirare secchiate d’acqua al pubblico ridendo come un bambino a cui il nonno ha dato in mano il tubo dell’acqua per annaffiare i pomodori, è stato doloroso. Doloroso quanto la realizzazione che le parole del suo ultimo singolo (“I’ll never die / ‘Cause I’m immortal”) non potevano purtroppo corrispondere al vero. Non in senso materiale per lo meno. Perché Ozzy è immortale e salverà altre vite con la musica. Come ha salvato la mia.

“I feel unhappy, I feel so sad
I’ve lost the best friend that I have ever had”

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.
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