Home RETROSPETTIVE Dust: il commiato degli Screaming Trees

Dust: il commiato degli Screaming Trees

Dopo anni di seminale − sebbene non sempre riconosciuta − presenza in quella Seattle che stava per far esplodere a livello globale il fenomeno grunge, gli Screaming Trees erano arrivati nel 1992 (quindi in coda allo strabordante successo commerciale dei fenomenali dischi del ’91, “Nevermind”, “Ten” e “Badmotorfinger” in testa) a “Sweet Oblivion”, un po’ la quadratura definitiva delle personalità all’interno della band, non a caso il best seller della loro discografia. Come per tante delle formazioni del periodo, però, affrontare gli occhi di tutto il mondo puntati addosso non era stato facile (nel loro caso molto era dipeso da “Nearly Lost You”, inserita nella soundtrack di “Singles”, il film cult di Cameron Crowe uscito proprio quell’anno), così come non lo era stato il relativo tour a supporto del disco, che li aveva incanalati in uno stancante e autodistruttivo giro del mondo.

Si prendono una pausa gli Screaming Trees, pensando anche, a un certo punto, che non sarebbero mai più tornati insieme, vista l’agitazione (chiamiamola banalmente così) serpeggiante fra Mark Lanegan e i fratelli Conner, oltre che tra gli stessi Van e Gary Lee. Solo sul finire del ’95 i Conner avevano finito di lavorare a un po’ di musica per i fatti loro, così come Lanegan aveva approfondito la sua dimensione solista e capito definitivamente a quali obiettivi sonori puntare. I tre e Barrett Martin si ritrovano così in studio per incidere ancora una volta qualcosa insieme, liberi da tante delle pressioni esterne che avevano contribuito a corrodere gli Screaming Trees.

Il risultato è Dust, un disco che va considerato a tutti gli effetti un mezzo “miracolo”, un inatteso, imprevedibile e meraviglioso affresco/compendio dell’intera esperienza Screaming Trees. In “Dust” convivono in maniera sorprendente − per certi versi anche più che in “Sweet Oblivion” − le anime compositive della band. Van e Gary Lee si riservano i soliti ampissimi spazi, infarcendo di psichedelia le distorsioni di All I Know (una delle tracce migliori dell’intera produzione della band), lanciando in un iperuranio blueseggiato Dying Days (in cui alle chitarra compare anche Mike McCready dei Pearl Jam, fresco di collaborazione con Lanegan nel progetto Mad Season), spingendo al massimo sull’acceleratore in Witness e nella conclusiva Gospel Plow.

Ma tanta autonomia se la ritaglia anche Mark Lanegan, che già in “Sweet Oblivion” s’era impuntato con gli altri per mettere a frutto le sue propensioni. In “Dust” c’è una Traveler che ha tutte le caratteristiche folkeggiate del più ispirato Lanegan solista, ci sono soprattutto Sworn And Broken e Look At You, dove l’acustica, la psichedelia e le vene folk tessono trame davvero di altissimo livello. E poi c’è anche Martin al top della sua forma, con il suo drumming sempre preciso, puntuale e trasversale nei riferimenti, condensato nei tribalismi di Dime Western.

“Dust” chiude così in modo agrodolce la carriera e la discografia degli Screaming Trees (si scioglieranno ufficialmente solo nel 2000, ma nella sostanza fu qui che le loro strade si separarono definitivamente), un disco maturo in cui i quattro musicisti coinvolti s’incastrano alla perfezione fra loro senza che uno provi − e se c’ha provato non c’è riuscito − a prevaricare sull’altro, ma che nella sua bellezza nasconde i motivi stessi per cui Mark, Van, Gary Lee e Barrett decisero da quel momento in poi di non continuare più a fare musica insieme.