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Gli Stone Roses e Madchester sul tetto del mondo

“Facciamo qualche associazione di parole: ‘Revolver’? Innovativo. ‘Never Mind The Bollocks’? Anarchia. ‘The Stone Roses’? Ehm…”. Così si esprimeva l’ormai defunto Melody Maker (uno dei più importanti magazine musicali della storia del Regno Unito) nel recensire l’edizione commemorativa del decimo anniversario di The Stone Roses. “Inascoltabile”, addirittura lo definì. Oggi può sembrare curioso, ma l’esordio della band di Manchester non è mai andato giù a una parte della critica. Eppure l’ormai innegabile influenza sulla musica inglese (e non solo) degli ultimi trent’anni ha costretto molti a mandare giù il rospo e riconoscere che questo improbabile quartetto, al suo meglio, ha creato della musica straordinaria e per certi versi irripetibile nelle sue caratteristiche.

Ian Brown, apparentemente il tipico frontman inglese arrogante (influenzato da Johnny Rotten, influenza su Liam Gallagher e centinaia di altri), col suo rilassato, quasi monotono canticchiare, ti dice che “vuole essere adorato” e che “è la resurrezione” (apertura e chiusura dell’album, I Wanna Be Adored e I Am The Resurrection), ma poi basta guardare un suo qualunque video su YouTube per trovare decine di commenti di utenti che raccontano la propria “Ian Brown Story” su quanto sia una persona umile, straordinaria e simpatica. John Squire, sesso, droga e rock‘n’roll, amante di Page, ma non solo del suo lato “Whole Lotta Love”, ma del genio che sta dietro “Over The Hills And Far Away” o “That’s The Way”. Reni e Mani, la sezione ritmica, sempre in bilico tra gli Smiths e la disco music, che influenzeranno tremendamente aprendo, insieme ai concittadini Happy Mondays, la stagione della “Madchester” e dei rave.

A dispetto delle critiche revisioniste degli anni ’90 (famosa quella di Jim DeRogatis, di inizio anni Zero) l’album suona fresco e assolutamente non datato tutt’oggi: il sinistro auto-peana di I Wanna Be Adored, la psichedelia anni ’60 di Waterfall, il pop perfetto di She Bangs The Drums e persino il tocco 100% English di piazzarci, a metà album, “Scarborough Fair” e chiamarla Elizabeth My Dear, difficile non trovare il tutto tremendamente irresistibile o non riconoscerne l’influenza sul britpop, sulla musica indie, sull’ibrido rock/dance che ha dominato i party inglesi (e le classifiche) per decenni. E non dimentichiamo il singolo, uscito subito dopo l’album ma incluso in ogni ristampa, che ha di fatto aperto la stagione di The Orb, Orbital e quant’altro: quella Fools Gold a un tempo psichedelica, rock, disco, rave, jam rock e quello che vi pare, quei dieci minuti di Ian Brown che lamenta “down, down, down, down, da-ran-dan-down” mentre il beat ipnotizza e John Squire deborda con il wah-wah.

Con buona pace della critica ostile, questo non è “l’oro degli stolti”, questo è un gioiellino fondamentale nella storia della musica inglese (e non solo). Mai ripetuto nemmeno dai Roses, che implosero prima per via di una battaglia legale con la loro etichetta e poi in un turbine di blocco dello scrittore, droga, morte e litigi (che rese l’ironicamente titolato “Second Coming” un insuccesso di critica per via del suono hard rock principalmente dovuto a John Squire), “The Stone Roses” sembra sia destinato a restare l’unico grande disco di una band dalle potenzialità enormi.

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.

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