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Amaury Cambuzat e gli Ulan Bator tornano con Dark Times, un disco di resistenza

Photo Credit: Press
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Incredibile. Sono passati trent’anni. Nel 1995 un trio parigino crede che anche in Francia, come in Germania col krautrock, si può scartavetrare un suono, modellarlo con fiamma ossidrica, renderlo appuntito, temibile, allo stesso tempo tangibile e sciamanico, e lo fa. Gli Ulan Bator sono incredibili per questo, perché nonostante le difficoltà lo hanno fatto per trent’anni. Certo, nel tempo si sono modificati, rimaneggiati, incuneandosi nel tunnel emotivo di uno solo, Amaury Cambuzat. Un musicista anarchico, vitale, artigiano e artista. Uno che negli anni è diventato un Faust, un produttore, uno sperimentatore di suoni con I Feel Like A Bombed Cathedral, ma senza mai del tutto abbandonare quella ragione sociale così magnetica per il pubblico italiano. Ulan Bator, e subito pensi ai locali, al suono, ai fumi, alla scena degli anni ‘90. Oggi Cambuzat riattacca la spina alla band e lo fa con un disco, Dark Times (qui la nostra recensione), che è già un caposaldo della discografia Bator perché album robusto, complesso, nero e brillante. Una specie di classico già prima di diventarlo. Dentro tutta l’oscurità dei tempi contemporanei, tra crisi climatica, rapporti sfibrati, conflitti, e la visione di Amaury in purezza. E questi tempi sono bui da anni perché il disco ha avuto una gestazione molto lunga abbracciando molte fasi. Noi partiamo proprio da qui in quest’intervista.

Amaury, perché tutti questi anni senza Ulan Bator?
Ho iniziato a scrivere “Dark Times” ben sette anni fa. Alcuni brani come Solitaire, L’Impératrice, RavagesInspire, En Enfer, sono nati quasi subito e senza difficoltà, ma la vera sfida è stata completarli e trovare nuove idee nel corso del tempo che rendessero il disco coerente e funzionale nonostante fosse stato scritto in un arco temporale così esteso. La parte più ardua è stata la scrittura dei testi: dovevano piacermi, funzionare bene e incastrarsi con le musiche. Ecco il motivo di tutto questo tempo perché, questo “sblocco”, è arrivato solo alla fine del 2024, permettendomi di completare l’album nella prima metà del 2025.

Forse è proprio la lunga gestazione che disegna “Dark Times” come un viaggio, un viaggio complesso tra buio e luce.
La complessità è la costante ricerca di originalità. Fin dall’inizio il progetto Ulan Bator ha rivendicato un’identità forte e singolare. In questo senso credo che un album debba essere concepito come un viaggio, un’esperienza immersiva, come un film che trasporta in territori inesplorati. Ogni brano ha lo scopo di agire come una chiave, aprendo piccole porte nella mente e stimolando una percezione nuova. Per me la complessità è il rifiuto totale delle scorciatoie, non mi accontento mai. È un percorso difficile e impegnativo, guidato dalla necessità di essere il più sincero e autentico possibile. L’autenticità è la vera misura del successo artistico.

Squarciamo subito il velo: dato il titolo, questo è un disco pessimista?
A prima vista può sembrarlo, ma per me è una constatazione della realtà. Vedo questo come un momento di passaggio, il preludio a un grande cambiamento. Sono fiducioso che arriveranno tempi migliori, per vederli però dobbiamo attraversare questi che stiamo vivendo. La scelta del titolo è stata una specie di fotografia della mia anima in quel preciso momento e non nascondo di aver attraversato io stesso un lungo periodo oscuro. Considero “Dark Times” un disco di resistenza. Metto tutte le mie preoccupazioni e le mie riflessioni sul tavolo, senza rassegnazione.



Un disco di resistenza dici. En Enfer, con la sua metafisica voglia di libertà, L’impératrice, che richiama madre natura, sono pezzi in cui ti tuffi nella crisi climatica?
È così. Sono profondamente preoccupato per l’ambiente e per il nostro destino. Come possiamo arrogarci il diritto di considerarci i più bravi o i più forti’quando continuiamo a mancare di rispetto alla grandezza della natura stessa? Questi brani sono il mio modo di tuffarmi in questa crisi climatica mettendo in opposizione il mondo claustrofobico che abbiamo costruito e la maestosità inerme della natura. En Enfer è costruito sulla metafora che contrappone noi agli uccelli. Noi viviamo sulla Terra, dove abbiamo eretto frontiere, muri, barriere fatte di filo spinato – confini autoimposti. Sopra di noi, in cielo, gli uccelli migrano, passano e restano liberi al di sopra di ogni barriera. Ed è un’immagine che mi fa sognare, soprattutto quando mi sento in gabbia, prigioniero di questo sistema che ci siamo autoimposti. Il brano si chiude con una sorta di “coro”, che in realtà sarebbe un grido: “Non vogliamo barriere, vogliamo vivere liberi qui, in questo inferno”.

Anche Ravages parla di barriere.
Sì, ma quelle relazionali. Una canzone sui rapporti di coppia che possono diventare tossici, dove un partner finisce per rinchiudere o trasformare l’altro. È un altro esempio di come ci complichiamo la vita, creando muri non solo politici o sociali, ma anche affettivi.

Musicalmente c’è una grande vitalità con suoni rari per voi: i tamburi nell’attacco di Into Nothing, il violoncello, ma anche la chitarra acustica usata con tutta quella luce in En Enfer. In che momento musicale ti trovi?
Musicalmente mi trovo in un momento di grande vitalità. L’intervento di artisti più giovani come Monia Massa al violoncello e Daniel D. Hedin (Le Days) al cantato ha dato un tocco di vitalità. Sono convinto del talento di Daniel, di Monia, e anche del grande Mario Di Battista (Dor) al basso; tutti questi artisti meritano di essere sostenuti.

E poi Franck Lantignac che torna in Ulan Bator dopo un periodo lunghissimo.
È stata una riconnessione emozionante tra noi, ma per nulla inaspettata. Nonostante il tempo trascorso e i percorsi individuali, io e Franck non abbiamo mai interrotto i contatti. L’idea è maturata quando ho iniziato a dare forma al nuovo album: avevo già scritto metà del materiale e ho sentito forte il desiderio di richiamarlo. L’ho contattato con una domanda semplice: “Sei interessato a registrare le batterie?”. Ha accettato immediatamente e ci siamo ritrovati insieme a Napoli, nello studio Kokoro. Alcune parti percussive dell’album, ad esempio Dark TimesInto Nothing e Locus-Solus leho programmate io, ma il groove di Franck è essenziale per la riuscita del disco. E poi ti svelo un segreto.

Vai.
Il mio sogno iniziale era quello di riunire il trio originale Cambuzat, Manchion, Lantignac, affiancato da Mario Di Battista, ma alla fine non siamo riusciti a riunirci al completo.

Peccato!
Eh sì. In ogni caso avere Franck a bordo ha fatto riscoprire quell’alchimia unica che solo i membri fondatori possono portare.

Ecco, a proposito di vecchia alchimia, Solitaire è una canzone Ulan Bator al 100%. Incisiva, con testo che incalza, ripetitivo, ossessivo. Un manifesto?
Mi fa piacere che tu abbia colto l’essenza Ulan Bator in Solitaire, però non è l’unico brano del disco ad avere quelle caratteristiche. Anzi, ritengo che questo album sia una sintesi riuscita di tutti i nostri dischi, pur introducendo molte novità. Un manifesto? Sì, lo è, soprattutto nel testo. Le frasi sono brevi, dirette e ruotano attorno a quelle due parole: Solitaire e Solidaire. Una dualità che descrive l’ambiguità del nostro tempo: l’individuo che sceglie di non uscire di casa, di stare al sicuro davanti allo schermo, difendendo cause importanti, ma sempre e solo a distanza. Solitaire parla dell’egocentrismo dilagante, di come questo ci stia progressivamente dividendo e isolando tutti. Me compreso, naturalmente.



Come dicevi, qualche anno fa vivevi a Napoli. E adesso? Dov’è casa per Amaury Cambuzat?
In questo momento mi trovo in Francia, in Provenza per l’esattezza. Casa per me non ha nulla a che fare con il concetto di proprietà o un luogo geografico fisso. Casa è dove si trova la mia compagna di vita e i nostri compagni a quattro zampe. La mia vera casa è definita dalle persone e dagli affetti che la riempiono, non dalle mura.

L’Italia, la Francia, l’Europa… l’occidente in che stato di salute si trova?
Quando ero più giovane sognavo un’Europa costruita dalle persone. Oggi abbiamo la moneta in comune e poi? L’unica cosa che sembra veramente unita a Bruxelles sono le grandi lobby e le multinazionali. Questo è il primo grande fallimento del progetto comunitario. Guardiamo ai fatti: l’Europa di oggi ha ancora tante frontiere burocratiche. C’è meno curiosità, meno reale scambio tra i popoli rispetto al passato. Per fare un esempio pratico, trovo ancora oggi complicatissimo muoversi da un Paese all’altro sul piano amministrativo. Ogni Stato membro conserva le sue leggi su lavoro, sanità, fisco. In un mondo globale dove tutto si muove a una velocità incredibile, questa lentezza e questa frammentazione sono l’handicap principale dell’Unione. L’Europa è un cantiere, ma procede a passo di lumaca, e questa lentezza ne è la fragilità. Il problema centrale è che non siamo ancora riusciti a creare una vera identità europea tra i popoli. E la mia paura più grande è questa: se non riusciamo a costruirla noi, gli abitanti che credono in un’Europa unita e progressista, lo farà l’estrema destra. Sembra purtroppo che la retorica nazionalista sia l’unica narrazione che riesca a unire il popolo europeo in questo momento storico. E questo, onestamente, fa molta paura.

E la musica? Esiste ancora una musica alternativa? E alternativa a cosa?
Questa domanda è un vicolo cieco. La verità è che una vera musica alternativa può esistere soltanto se ci sono artisti alternativi. Non è una questione di sound, ma di etica e di stile di vita. Essere “alternativo” o outsider non è più un gesto romantico o un pregio come poteva esserlo un tempo. Non fa più sognare nessuno, perché essere marginale o “povero” non è socialmente accettato. La società non glorifica il fallimento o la scelta di essere “fuori sistema”; li punisce o, peggio, li ignora. Molti dei miei eroi sono figure tragiche: poeti, artisti maledetti, o come li chiamava Antonin Artaud, “suicidati della società”, pensiamo a un Van Gogh. Erano persone la cui arte era un prodotto diretto della loro esistenza in contrasto con il mondo. Oggi, quel romanticismo legato alla marginalità non ha più presa. Il modello aspirazionale è il successo immediato, l’algoritmo, la hit da milioni di stream. E credo che questo sia il punto centrale: il rock alternativo, inteso come narrazione underground e non-mainstream, fatica a esistere perché è venuto a mancare il coraggio (o la follia) di abbracciare la vita alternativa che lo alimenta. Peccato, ma credo che questo romanticismo non faccia più sognare a nessuno!

A proposito di questo. Ci racconti la produzione di “Dark Times”?
È fondamentale sottolineare che “Dark Times” è un disco autoproduzione al 100%. Una volta completato, l’obiettivo non era tanto trovare un’etichetta, quanto trovare persone con cui condividere la cura di un progetto di questo tipo. Ammetto di non aver condotto una ricerca estenuante, ma i riscontri non sono stati esaltanti. A quel punto mi sono fatto forza e ho avuto una chiara presa di posizione: ho pensato che un disco così importante per noi non poteva avere un percorso facile e, soprattutto, non poteva finire nelle mani di un’etichetta che non avrebbe garantito la cura e l’attenzione che speravo. Il disco doveva uscire, ad ogni costo, e l’autoproduzione era la via per assicurargli la massima integrità. Per me “Dark Times” non è un semplice prodotto, è un disco di canzoni. Oggi, la maggior parte degli album viene concepita come merce vendibile, etichettata con hashtag di genere per raggiungere il pubblico. L’obiettivo con questo disco era anche un altro: volevo chiudere una storia iniziata trent’anni fa! Non posso dire oggi se ci saranno altri album con il nome Ulan Bator. Questa potrebbe essere la fine di una lunga e intensa avventura.

E questo un po’ di malinconia ce la mette addosso. Nel tuo futuro cosa c’è?
Il mio futuro è nella semplicità. Per poter essere ottimista, devo proiettarmi nel minimalismo, nella ricerca di qualcosa di vero e autentico. Ho speranza in ciò che arriverà successivamente a questo modello dominante.

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