Home INTERVISTE Bachi Da Pietra: «Senso dell’epos, pudore del patos»

Bachi Da Pietra: «Senso dell’epos, pudore del patos»

I Bachi Da Pietra di Giovanni Succi e Giovanni Dorella sono tra quelle realtà rare, rarissime, nel panorama musicale italiano. Così rari, da non sembrare possibili. Ma poi se si va a sbirciare su chi è quel folle che “affranca” un prodotto come il loro, e si scopre che è la Wallace di Mirko Spino, allora tutto si spiega. Il loro blues “che sa di legno e ferro”, marchiato a fuoco dallo “spoken” di Succi e dal drumming urbano di Dorella, propone delle atmosfere claustrofobiche davvero spiazzanti, ed il debutto con “Tornare nella Terra”, edito nel 2004, giocava con certo inimitabile tribalismo primitivo. Il bis arriva quest’anno con “Non io”, disco di blues nerissimo e molesto. Il Cibicida ne ha discusso con Giovanni Succi, “parlato” e liriche dei Bachi Da Pietra .

Nella recensione de Il Cibicida si dice che se “Tornare alla Terra” è la schiusa dell’uovo, “Non Io” è la larva di questo “baco da pietra”. Come dire: il secondo lp rappresenta una fase più “viva” rispetto ai sussulti primordiali dell’esordio?
Il primo album dei Bachi Da Pietra si intitolava “Tornare nella Terra”, dove “nella” sta per dentro, non “alla” Terra, che pare un programma di rilancio dell’agricoltura. Molti non sentono alcuna differenza in questa variante. Ora che l’uovo è rotto e la creatura striscia, scalpitiamo per registrare il prossimo disco, che avrà probabilmente un titolo in inglese per venire incontro alla comprensione del pubblico italiano.

Cosa vi siete detti tu e Dorella al momento di mettervi a scrivere il secondo lavoro?
Ci siamo detti pronti via. Non immaginate quanto siano punk i Bachi nell’approccio alla materia. Che poi era anche l’approccio senza tante balle di tutti i più grandi della storia del blues e del jazz… Quindi pronti via.

Nei Bachi, la scrittura e la musica nascono in due tornate differenti?
Bella domanda. A volte si a volte no. Chi può dirlo.

Quanto c’è di te e quanto c’è di letterario nei tuoi testi?
Sarebbe ben triste non ispirarsi alla vita, specialmente nel r’n’r. Domanda molto complessa, comunque. Forse intendevi chiedermi se traggo ispirazione diretta da altri autori: la risposta è no. Nulla di degno ne potrebbe uscire a mio giudizio, anche se il plagio unito ad una onesta mediocrità sono la via maestra per il successo di pubblico e di critica in Italia. Questo non significa che tutto ciò che ascolto, leggo, guardo, non mi suggestioni in positivo negativo o neutro, anche perché rimugino molto. Siamo filtri che contaminano ciò che filtrano: l’atto creativo è sempre un intervento su materia preesistente. Bisogna quindi allenarsi assiduamente a filtrare. Come vermi. Forse intendevi chiedermi se esistono riferimenti letterari in alcuni testi: la risposta è si. “Stirpe Confusa” ad esempio è costruita incrociando alcuni versi di due poeti italiano morti molto giovani (Corazzini a 21 anni e Gozzano a 33) vissuti ignorando l’esistenza l’uno dell’altro agli inizi del Novecento. Erano così avanti che è bastata qualche minima variazione e un solo verso di mia mano per dare al testo un sapore ultra-contemporaneo da fine millennio. Ovviamente nonostante l’evidenza assoluta non se n’è accorto nessuno di quanti scrivono di musica, a parte un paio; i critici musicali in erba e non, sono di solito alla ricerca di quei tre o quattro nomi da citare, sempre gli stessi, da dove presumono tutto derivi e dei quali fa tanto fico riempirsi la bocca. Infine un’ultima cosa. Io mi ispiro al vissuto. Ma nel momento in cui la scrivi, la vita è già letteratura, la stai facendo. Contrapporre vita e letteratura per paura di contaminarsi in uno dei due settori è molto ingenuo. Tutta la letteratura in origine non è che vita vissuta, carne e sangue; pulsa in un cranio o balugina nei bulbi oculari di qualcuno, per passare solo accidentalmente attraverso un arto o un muscolo, una penna, una lingua. Oppure mai. In ogni caso sia chiaro che non occorre alcuna competenza letteraria per lasciarsi trafiggere dai Bachi Da Pietra. Anzi, qualsiasi forma o espressione o movenza di linguaggio da poetastri svenevoli e intellettualoidi cattedratici è severamente bandita.

Il peso della parola: una parola, una vita intera?
Quando ami una cosa la trovi leggera, anche se su quella cosa si fonda il mondo. Amo la parola perché mi rende migliore e se io le rendo il favore, forse lei mi sopravviverà. Poi sai… siamo tutti qui per fraintenderci. Spesso uso parole che per me hanno valenze molto vive e positive e queste vengono interpretate come assai negative o genericamente “pessimiste” solo perché si connota come genericamente “cupo” il contesto in cui cadono. Ma amen.

I Bachi Da Pietra non rischiano di perdere troppo nella loro versione live? Soprattutto dal punto di vista vocale…
Rischiano molto; per questo strappano il massimo e di solito spaccano il culo.

E’ blues scaccia dolori, il vostro? O forse li racconta solamente?
Raccontare i dolori (il vissuto) con le parole e con il corpo è l’unico modo reale e concreto che l’uomo abbia per elaborarli, rigettarli via da sé, espellerli. La parola ferisce e cura più di ogni altra cosa da sempre perché siamo umani. La litania è la cura dei popoli privi di una scienza che si presuma matematicamente esatta. Quando un dottore non ha più qualcosa di chimico (e di pateticamente esatto) da farti ingoiare, comincia a farti sputare: parole. Nel blues e nella musica arcaica, nella poesia di tutti i tempi e luoghi della terra, nella tragedia, parola e azione ritualizzati curano.

Qual è l’elemento che ti accomuna maggiormente a Bruno Dorella?
Abbiamo un profondo senso dell’epos ma molto pudore del patos. Respiriamo il tacito profumo dell’impresa, anche se non lo manifesteremmo mai negli atteggiamenti; sentiamo di compiere gesta. Per carità, gesta donchisciottesche, in un contesto a volte amaro… Ma a volte sentiamo di sfiorare qualcosa che nella nostra povera mente allucinata è simile alla gloria. Per il resto siamo pesci di marzo, goderecci, cocciuti, dotati di troppa pazienza. E questo spiega molto.

Avete mai pensato: “Mirko Spino ha grande fegato nel decidere di produrre un progetto così complesso come il nostro”?
Non è fegato. E’ follia. Lo stesso dicasi per i ragazzi Die Shachtel. Gli individui di queste due etichette sono chiaramente squilibrati e lo dimostrano chiaramente la costanza e la cura con le quali confezionano da un decennio le loro produzioni nel panorama musicale italiano. Detto questo, purtroppo per voi, la nostra proposta non è la cosa più ostica in casa Wallace o in casa Die Shacthel, semmai la più pop in assoluto. Il nostro progetto è per un pubblico adulto ma non mi pare poi così complesso: lo diventa forse nella percezione altrui, o al primo impatto, o forse nella difficoltà di catalogarlo. Ma la formula, se provi a dirla a parole, è ben poca cosa: una chitarra, effetti zero, una mezza batteria, una voce (in italiano, testi scritti nei cd). Accordi, 4/4 appena un po’ maltrattati… In questo cd poi abbiamo pure tradotto i testi in inglese, per agevolare quanti in Italia fanno fatica a cogliere le sfumature dell’italiano. Ripeto, mi sa che non è un problema nostro.

Si potrebbe accostare il tuo parlato a quello di Mimì Clementi?
Dopo dieci anni della stessa domanda, che penso nessuno abbia mai rivolto anche a Clementi, credo di poter rispondere ancora una volta che sì, le due cose possono sembrare molto simili, in caso di otite cronica o gravi lesioni del timpano. Molti bluesman arcaici blateravano sui loro accordi introducendo i pezzi o raccontando storie o mimando le modalità di un cantar-parlato melodico e tonale, ritmicamente scandito (…l’antenato del rap?). Inoltre la poesia volgare ha molte forme di metrica e in origine si accompagnava alla musica. Nella mia candida innocenza ho sempre immaginato che fosse evidente a chiunque che il mio modo di dare fiato alla parola non conduce mai all’enfasi e alla declamazione che sono valsi il giusto e meritato successo di Emidio Clementi. Non posseggo, per mia somma sfortuna, i toni sublimi dell’estasi collettiva emilano-romagnola. Per questo tu lo chiedi a me e non a lui.

Domanda di rito: se ti dico Cibicida cosa ti viene in mente?
Autofagia.

* Foto d’archivio

A cura di Riccardo Marra