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Marlene Kuntz: «Senza mutamenti non esisteremmo più»

godanointervista20151Cavolo se passa il tempo! Sì, è la solita banalità che scappa in certe circostanze, ma concedetemela nel momento in cui mi trovo qui a intervistare Cristiano Godano. E passa il tempo sì, perché la prima intervista che Cristiano mi concesse per Il Cibicida fu… dieci anni fa. Ai tempi, il 2005, era uscito “Bianco sporco” e gli chiedevo di Catartica “a più di 10 anni dalla sua uscita”. Ora sono oltre 20 gli anni passati da quel disco così personale e urgente a cui, i Marlene Kuntz, hanno voluto dedicare l’anno scorso un mega-tour monografico. Un successone che ha spinto la band a organizzare altre date quest’estate scavallando l’anniversario tondo. Di questo e di molto altro, parliamo con Cristiano in questa chiacchierata. Cercando di non essere troppo nostalgici.

Ciao Cristiano, innanzitutto è un piacere poterti sentire ancora una volta.
Grazie!

Parto con qualcosa di personale. Non avete fatto moltissime cover in carriera, ma la vostra Impressioni di settembre della PFM è un gioiello. C’è quel testo che fa: “Cosa sono adesso non lo so, sono solo un uomo in cerca di sé stesso”. E’ una ricerca che riguarda anche te?
Beh, insomma, secondo me almeno una decina di cover, più o meno, ufficiali e suonate live le abbiamo fatte! Non poche… Per risponderti: direi che il processo creativo di scrittura testi con ogni probabilità mi ha sempre permesso di conoscermi un po’ meglio – e di questo aspetto ne “parlo” nella nostra canzone Su quelle sponde, dal nostro disco “Nella tua luce” – anche se non ne sono mai stato direttamente consapevole. E la cosa continua, visto che continuo a fare testi e canzoni. Per cui, direi che sono tuttora proteso verso una ricerca e una migliore definizione e comprensione di me stesso. Più ancora che appagato, estremamente orgoglioso di quello che sono riuscito a fare in una nazione come la nostra, non facile per chi scelga di fare certe cose e certe musiche.

Hai citato “Nella tua luce”, nel brano Catastrofe racconti di Gioele, il senzatetto, e dei suoi fantasmi. Un pezzo che richiama la crisi attuale. È un aspetto triste che la gente ormai sia costretta a parlare solo di soldi? Nei bar, a casa, in tram…
Se il tenore di vita scende sino a problematiche mai affrontate prima dalla più parte delle famiglie di questa generazione – fosse anche soltanto la paura per un futuro molto incerto – temo che sia giustificato averne un’ossessione. È forse triste, ma è sicuramente un po’ più triste che ci sia una crisi da cui molti faticano a uscire.

E la crisi c’è anche nella musica: un mese fa Geoff Barrow ha denunciato come 34 milioni di stream dei Portishead siano equivalsi a sole 1700 sterline. Ritorniamo a prima: la recessione rischia di abbassare anche la musica a mero dato economico?
Ho più o meno la stessa risposta di prima: sarà anche triste che noi musicisti ci si preoccupi del fatto che la nostra musica economicamente valga quasi più niente, ma è ancora più triste che per molti della categoria questo sia un problema di sussistenza. Non sono mai stato attratto dal mito dell’artista come di colui che non dovrebbe pensare a certe cose… Se si dedica anima e corpo a crescere e a migliorare è evidente che il suo tempo è per la sua arte, con la quale, e grazie alla quale, vive. Se di colpo metà del suo lavoro diventa non più remunerato – la parte discografica, mutilata dalla tragedia della gratuità in rete – è un problema, no? Come paga la sua vita? Le sue bollette? Il suo mutuo? I suoi figli? Il fatto è che un sacco di gente pensa che un sacco di artisti si sia fatto un sacco di soldi in precedenza e non abbia da lamentarsi se ora ne guadagna meno. Esistesse un responsabile che ha messo in giro ‘ste stupidaggini andrebbe rintracciato e gli si dovrebbero tirare le orecchie con pubblica gogna. Ma è un discorso lungo, andrebbero fatti dei distinguo per spiegare meglio… mi fermo qua.

Concedimi un tuffo nel passato. La prima volta che scoprii il nome Marlene Kuntz fu ascoltando la cover di Lieve fatta dai CSI nell’acustico “In quiete”. Un grande “vecchio” gruppo che lancia una giovane band. Oggi chi lancereste voi? E cosa ricordi di quel sostegno di Ferretti e compagni?
Anche mi venisse in mente qualcuno, sarebbe così sconosciuto (se è da lanciare…) che non avrebbe senso parlarne ma… farne una cover. Di quel frangente “ferrettiano” ricordo l’emozione e la consapevolezza di un’ottima opportunità di poter arrivare a un pubblico magari non facile da raggiungere altrimenti.

Un altro passaggio al passato (giuro, l’ultimo!). A quindici anni di distanza, perché secondo te la gente s’incazzò così tanto della vostra collaborazione con Skin? Tra l’altro La canzone che scrivo per te è uno dei pezzi più amati…
Perché il mondo dell’underground – furono ovviamente loro a incazzarsi – è in larghissima percentuale fatto da gente, soprattutto giovane ma non unicamente, che non ha ben chiaro cosa voglia esattamente dire “ascoltare la musica”, nonostante lo creda fermamente e nonostante alla musica sia realmente interessato. Si nutre di rigidi idealismi di natura estetico-comportamentale e sceglie, in base a essi, come catalogare ciò che va bene e ciò che non va bene, ciò che fa figo e ciò che non lo fa. E poi credo che su di noi si siano creati all’inizio “miti” e fantasie del tutto equivoci. Temo anche che non si vedesse l’ora che noi facessimo un passo falso, e dunque una collaborazione con un’artista molto visibile fu un ottimo pretesto. Qui in Italia succede a qualsiasi gruppo che resista e cresca. Ed è tutto così misero…

Ok, punto. Torniamo all’oggi: giorni fa Saviano è andato ad Amici a parlare di Dostoevskij. Ti chiedo: tu saresti andato? E pensi ci siano palchi su cui non si dovrebbero mai portare certe cose così alte?
Non credo di aver mai guardato per intero una puntata di Amici, per cui prima di tutto dovrei informarmi meglio! Mi porrei delle domande, certo, e valuterei. Ma il problema che mi porrei avrebbe a che fare più con la reazione del mio pubblico – certe reazioni possono distruggere una carriera, ed è un’altra cosa ben triste e misera – che con il mio mood. Sono una persona curiosa e a volte certi limiti personalmente non me li porrei, mosso più dal desiderio di… vedere com’è andare dove non sono mai stato. Poi, certo, parlare di uno scrittore russo a un pubblico a cui probabilmente non frega quasi nulla (spero non sia solo un mio banale pregiudizio) non è esattamente motivante… Per cui, per rispondere alla tua seconda domanda, ha sicuramente un senso per me valutare caso per caso. Così come trovo assai bello che Saviano non abbia evidentemente avuto troppe menate per la testa e ci sia andato, parlando a un pubblico “di un certo tipo” di un grande della letteratura. Non vedo come non possa altro che considerarsi una cosa positiva.

Parliamo un po’ dei Marlene. Quest’estate riproporrete il tour monografico su “Catartica”. Quale l’aspetto più bello di rispolverare quei pezzi e quale quello più “doloroso”?
Ci divertiamo molto a suonare quei pezzi. Tutto qua. Niente di “doloroso”, pur se fra virgolette… Spiace solo per quelli, noiosi assai, che pensano “questi sono i veri Marlene”, poiché i veri Marlene sono quelli che vivono il loro presente in continua mutazione.

Che è l’annosa discussione sui Marlene. Una mutazione che vi permette di esibirvi, allo stesso tempo, al Primo Maggio “sudato” di Taranto e a teatro per spettacoli molto intimi. Fu “Uno” del 2007 a calibrare il vostro impeto?
Con “Uno” abbiamo potuto, in effetti, cominciare a pensare seriamente di poter andare nei teatri. Ma il nostro percorso testimonia chiaramente di un anelito a variegare la nostra musica da tempi ben precedenti a quel disco. Siamo interessati a poterci esprimere in più sfaccettature e consideriamo una gran fortuna aver avuto la possibilità di crescere e affinare i nostri modi di suonare anziché fossilizzarci su un solo “genere”. D’altronde sono quasi certo che se lo avessimo fatto non saremmo qui a fare questa intervista, perché probabilmente non esisteremmo più.

Lo so, la prossima è una domanda banale, ma concedimela: c’è un vostro pezzo che più di ogni altro ti fa emozionare eseguendolo e ti sconquassa emotivamente?
Purtroppo no, non c’è. La mia performance sul palco empatizza molto poco col me stesso autore di testi, col suo carico emotivo. La performance per me è un’altra cosa, ha a che fare con il tiro del pezzo mentre lo eseguo… la sua intensità, il fatto che noi lo si suoni in maniera fantastica, coinvolgente, spaccaculi. Quando avverto queste cose sono… sconquassato emotivamente.

Ti saluto con un’ultima domanda. Quando ci sono 20 anni di carriera alle spalle, quanto si scrivono canzoni per gli altri e quanto per sé stessi? E quali sono le percentuali dei Marlene?
Non so dare percentuali esatte, ma continuiamo a privilegiare il secondo dei due aspetti, ben sapendo che esiste un pubblico, prezioso, amato, necessario. La parte migliore di questo nostro pubblico si aspetta da noi proprio questo, che noi si continui a pensare prima di tutto un po’ di più a noi stessi. Perché è garanzia di buona/ottima musica.

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