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Depeche Mode @ Stadio San Siro, Milano (14/07/2023)

Photo Credit: Il Cibicida / Emanuele Brunetto
Photo Credit: Il Cibicida / Emanuele Brunetto

Al netto di tutte le supposizioni e cattiverie varie ed eventuali su quanto Andy Fletcher fosse ancora rilevante all’interno dei Depeche Mode dal punto di vista creativo e compositivo, va da sé come la sua scomparsa abbia creato una voragine all’interno della band, non fosse altro che per certi fragilissimi equilibri tra i due mattatori Dave Gahan e Martin Gore, da sempre in quieta competizione per il ruolo di guida della formazione inglese. La sua scomparsa ha in qualche modo legato ancora di più Gahan e Gore, portandoli a pubblicare un disco, “Memento Mori”, a fuoco come nei migliori momenti della loro discografia, maturo, ricercato, consapevole e sobriamente riflessivo. Un disco cui sta seguendo il primo tour senza Fletch dietro le tastiere a tenerli d’occhio, una presenza silenziosa che, una volta venuta meno, ha forse responsabilizzato ulteriormente Gahan e Gore nei confronti della loro creatura, che adesso sì deve andare avanti a ogni costo, per loro due, per quello che sono stati e sono ancora come band ma soprattutto per Fletch. E così a Milano dopo il successo di Roma e in attesa di quello di Bologna, i Depeche Mode sono ormai una band che non ha più nulla da dimostrare a nessuno, un bolide che va in scioltezza col pilota automatico.

In apertura troviamo gli Hælos: il trio londinese è in giro da un po’ di anni e ha collezionato una manciata di ottimi dischi che mischiano trip hop, dream pop ed elettronica da dancefloor, con un occhio particolare alle atmosfere. Ecco, il palco di San Siro non è esattamente la loro comfort zone, nel senso che proprio le atmosfere che li contraddistinguono subiscono l’impatto dell’immensa location e dell’enorme pubblico, si perdono un po’ nel disinteressato chiacchiericcio e i volumi troppo, troppo bassi in questo non aiutano affatto. Loro snocciolano un paio dei singoli che li hanno fatti conoscere, tra cui le meravigliose Dust e Pray, ma scorrono via senza catturare granché l’attenzione della platea. Se qualcuno si degnasse di portarli nuovamente in Italia (queste aperture per i Depeche Mode sono la loro prima volta in assoluto nel nostro Paese) per farceli godere in un club, gliene saremmo grati.

Dicevamo di come i Depeche Mode siano ormai una macchina che va col pilota automatico: le loro setlist già da parecchi anni lasciano poco, pochissimo spazio alle sorprese, ne scelgono la struttura ad inizio tour e la mantengono praticamente inalterata dalla prima all’ultima data. Così sappiamo tutti cosa aspettarci e in quale ordine, una certezza che toglie qualcosa in termini di effetto sorpresa ma che fa montare l’attesa per i pezzi da novanta che cospargono la scaletta. Non che ne dubitassimo, ma i singoli estratti dal nuovo album funzionano che è una meraviglia, e succede una cosa non così comune per i nuovi singoli dei nuovi album di band dalla discografia immensa come quella dei Depeche Mode: il pubblico canta Wagging Tongue e Ghosts Again a squarciagola come fossero hit provenienti direttamente dagli anni ’80, le ha già fatte proprie, segno di qualità, segno del livello raggiunto e mai più abbandonato dalla premiata ditta Gahan/Gore.

Poi c’è il resto, che è il consueto viaggio nella storia dell’elettronica, del rock ma sarebbe meglio dire della musica tutta: Walking In My Shoes, Everything Counts, World In My Eyes (dedicata a Fletch, con il suo faccione in bella vista su tutti gli schermi e le poche parole di Gahan a ricordarlo), Stripped e poi quell’inno che è Enjoy The Silence, roba che ne basterebbe una sola per giustificare qualsiasi altra carriera artistica. Il consueto momento appannaggio vocale di Martin Gore avviene con A Question Of Lust e Soul With Me (a questo giro non c’è “Home”, peccato ma bisogna pur scegliere altrimenti saremmo stati lì con loro per tutta la notte e oltre), c’è la solita versione remixata di A Pain That I’m Used To (a loro piace farla così, accettiamolo), ci sono Precious, I Feel You, Wrong e via discorrendo, per un lungo andirivieni fra un decennio e l’altro di storia di una band che ormai ne ha iniziato il quinto.

Dave Gahan è nato il 9 Maggio del 1962, ha quindi la bellezza di 61 anni, ha alle spalle qualche annichilente periodo di abusi e un paio di viaggetti al di là del mondo dei vivi, oltre che una sindrome dell’impostore che l’attanaglia da una vita: eppure quando sale su un palco è, ancora oggi, un vero e proprio ossesso, senza alcun dubbio uno dei frontman più incredibilmente carismatici e incisivi che si siano mai visti. Rispetto a qualche anno fa le sue danze e il suo dimenarsi sono diventati più cadenzati, la setlist in questo lo aiuta a riprendere fiato (l’unica pecca di un live monumentale è proprio questa, ovvero il non esplodere mai del tutto), ma come dialoga con il suo pubblico utilizzando solo il corpo e senza quasi proferire parola, è qualcosa di più unico che raro, impossibile staccargli gli occhi di dosso.

Gore e Gahan s’abbracciano, fra loro e col resto della band, sanno benissimo di avere fra le mani una testata nucleare e sanno benissimo come e quando farla esplodere: nell’encore si presentano entrambi in fondo alla lunga pedana in mezzo al parterre per Waiting For The Night, con una miriade di luci degli smartphone ad accompagnarli dagli spalti, poi l’hittona Just Can’t Get Enough e infine il sipario che cala con Never Let Me Down Again e Personal Jesus, quest’ultima nella loro più recente reinterpretazione. Le luci s’accendono e il pensiero è solo ed esclusivamente uno: “Per fortuna a Marzo li riavremo ancora da queste parti”. Storia in carne, ossa ed eyeliner.

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