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Heineken Jammin’ Festival 2012 – Milano – Fiera di Rho

La vita, soprattutto di questi tempi, offre poche certezze. Ma io ne ho sempre avuta una: l’Italia non è una nazione culturalmente preparata ad ospitare un festival rock. Pensavo questo alla fine degli anni ’90, quando durante i primi Heineken Jammin’ Festival tante malcapitate band non potevano neanche finire il loro set in quanto vittime di un vergognoso tiro al bersaglio (ovviamente ad opera dei fan di Vasco Rossi). E lo penso anche oggi, perché – mentre in tutta Europa nascono e crescono anno dopo anno importanti festival – nella nostra Nazione siamo fermi all’evento in verde organizzato dalla nota birra olandese, che per sopravvivere ha dovuto nuovamente traslocare, destinazione Milano (anzi, Rho Fiera). Per carità, in Italia non mancano iniziative di tutto rispetto (mi vengono in mente Ypsigrock e il Mi Ami), ma se parliamo di un festival capace di attirare più di diecimila persone, l’unico che resiste da anni e che dunque si è fatto una certa reputazione è proprio l’HJF. Per garantirsi tale longevità, questo festival ha puntato sull’unica cosa che tira in Italia: il grande nome. Tutto il resto è puro contorno, buono giusto per giustificare la dicitura “festival”, ma rispetto agli altri eventi europei cambia tutto. Se altrove si va per immergersi in un’atmosfera particolare, ascoltare più artisti senza una specifica preferenza spaziando da un palco all’altro (non posso dimenticare il Pukkelpop 2008, quando vidi undici concerti in un giorno, o Leeds 2003, con ben otto stage in contemporanea) in Italia si partecipa ad un festival solo per il concerto di una specifica band. E io non faccio certo eccezione: a me interessano Noel Gallagher e i New Order. Non che mi dispiaccia tutto quello che è compreso nel biglietto, ma il motivo della mia presenza all’HJF 2012 è dovuto esclusivamente alla presenza di questi artisti nel cartellone.

La prima giornata vede in programma Enter Shikari, Pitbull, Noel Gallagher e i Red Hot Chili Peppers: insomma, un programma equilibrato ed omogeneo, sensato quanto i Cannibal Corpse allo Zecchino d’Oro. Non mi sarebbe dispiaciuto dare un’occhiata agli Enter Shikari, ma l’idea di sorbirmi successivamente l’intero live di Pitbull mi induce ad arrivare a Rho Fiera poco prima delle 19. Mentre i presenti – accorsi in massa per gli headliner della serata – apprezzano e ballano la musica del rapper latinoamericano (mi astengo saggiamente da qualsiasi giudizio), io ne approfitto per dare un’occhiata alla location. Devo dire che del famigerato parcheggio della fiera di Rho se ne è parlato fin troppo male. Facile da raggiungere (sia in metro che in auto), garantisce una buona visuale ed ha un grande pregio: un mega portico dove potersi riparare e guardare comunque il concerto sia in caso di sole cocente che di pioggia. Apprezzabile anche l’impegno della Heineken per rendere più accogliente questa immensa distesa di asfalto, con mega tappeti verdi, zone refrigeranti, oltre ovviamente agli immancabili stand degli sponsor. Finito Pitbull, arrivo fin dove posso (le zone più vicine al palco sono esclusiva di chi ha comprato il biglietto PIT, più costoso del normale) per assistere al live di Noel Gallagher e dei suoi High Flying Birds. C’è modo e modo per voltare pagina dopo un passato glorioso e Mr. Gallagher trova sicuramente quello giusto. Il suo primo disco solista – a parte la meravigliosa If I Had A Gun, che avrebbe meritato dal vivo un sound meno soft – è stato sicuramente un lavoro abbastanza deludente. Però le nuove canzoni dal vivo fanno la loro onesta figura, anche perchè intervallate da più di un brano degli Oasis. Pochi i classici noti al grande pubblico (giusto Whatever, Little By Little e Don’t Look Back In Anger) e tante le b-side (Talk Tonight su tutte) che confermano un’impostazione musicale più intima e acustica rispetto agli Oasis. Sarà curioso ascoltare il secondo album di Noel (lui stesso ha dichiarato che vi sarà una netta virata verso la psichedelia), ma nell’attesa chi va ai suoi concerti può godersi una rockstar rilassata e in forma, accompagnata sul palco da una band affiatata e capace. Quando termina l’esibizione dell’ex Oasis, io e pochi altri ci allontaniamo, mentre la maggior parte compie il percorso inverso, cercando di avvicinarsi quanto più possibile al palco. E’ la volta dei Red Hot Chili Peppers, che rientrano (insieme a U2, Coldplay, Muse) in quel ristrettissimo insieme di band capace di smuovere folle oceaniche ad ogni tour: rock per le masse, appunto. Quando si raggiungono questi numeri, in genere si grida sempre allo scandalo della band che si è venduta al dio denaro senza alcun ritegno. La cosa potrà essere anche vera, ma devo spezzare una lancia (anzi due) in favore dei californiani, nuovamente orfani di Frusciante. Voi cosa fareste se Abramovich vi offrisse tre milioni di dollari per suonare al suo party di capodanno ai Caraibi? E siamo così sicuri che il nuovo album (che presenta un paio di singoli quantomeno dignitosi) sia così inascoltabile rispetto ai precedenti? La verità e che i RHCP hanno sempre fatto – a parte la parentesi con Dave Navarro – musica rock estremamente commerciale, che può legittimamente piacere o no. Ed è altrettanto legittimo avere le palle girate perchè la band che ascolti da anni anziché essersi sciolta al momento giusto continua a suonare ed ora piace a cani e porci. Io però non mi indigno affatto, ascolto un’ora di concerto (i vecchietti sul palco sanno comunque suonare) dopodiché decido che può bastare e mi garantisco un tranquillo ritorno a casa su una metropolitana deserta.

Saltata la seconda giornata, che vedeva un ibrido rock-elettronica con Lostprophets, Evanescence e Prodigy, per l’ultimo giorno dell’Heineken arrivo a Rho alle 16.50, perché – nonostante il sole cocente e la stanchezza di chi ha lavorato tutta la settimana, sabato mattina compreso – stavolta m’interessa tutta la line up, primi gruppi del pomeriggio compresi. Accade una cosa della quale nessun giornale vi parlerà, ma mai come in questo caso sono i particolari a fare la differenza. Qualcosa non quadra: sono le 16.50 e sento già suonare i Parlotones, programmati per le 17.15. Possibile? Sì, come è possibile solo mezz’ora di concerto dei Crystal Castles e un anticipo di ben venti minuti del live dei New Order. Lancio una ipotesi: gli organizzatori si accorgono solo in giornata che è abitudine dei Cure suonare tre ore per ogni concerto e cercano di anticipare o comunque comprimere tutto ciò che li precede. Ma – al di là di quale sia la causa – una disorganizzazione simile è assolutamente irrispettosa nei confronti degli artisti e soprattutto di chi acquista (profumatamente) il biglietto. Come scritto in precedenza, in Italia si pensa solo all’headliner e manca una vera cultura da festival, altrimenti certi errori francamente ingiustificabili non avrebbero luogo. Venendo all’aspetto musicale, i sudafricani Parlotones non mi sono dispiaciuti. Rock commerciale ma ben impostato ed abbastanza variegato: un paio di pezzi davvero validi (tra cui Life Design, inno degli ultimi mondiali di calcio che ho potuto solo vagamente sentire da lontano grazie allo stravolgimento del programma). Spero ripassino in Italia. Avrei voluto ascoltare con più attenzione anche i Crystal Castles, ma il loro live dura solo mezz’ora e durante quei trenta minuti ero abbastanza lontano dal palco, impegnato in cause nobili come mangiare, bere ed andare al cesso. Devo anche dire che non mi sono avvicinato più di tanto perchè l’impressione durante i loro primi brani era davvero pessima, con la cantante Alice Glass impegnata più che altro ad abbaiare, accompagnata da un sound troppo elettronico e martellante per i miei gusti. Il discorso cambia con le loro ultime due canzoni (I Am Made Of Chalk e Not In Love, che nella versione in studio ha visto la collaborazione con Robert Smith). Ma il live è purtroppo già finito. Poco male, perchè per il sottoscritto si avvicina il momento musicale dell’anno, ovvero il live dei New Order. Tutti noi abbiamo una lista di gruppi o artisti preferiti, più o meno lunga. Nella mia classifica personale gli unici a mancare alla voce “visti dal vivo” erano proprio loro. E – dopo lo scioglimento del 2007 – non speravo più in un’opportunità per vederli live, tutt’al più in Italia. Peter Hook (che durante un suo dj set del 2006 mi disse “I’ll try to persuade the others” su mia espressa richiesta di un ritorno della band in Italia) non ha affatto preso bene la storia della reunion della band. Il problema è che – orfani di Hook – i restanti componenti si erano imbarcati nel progetto Bad Lieutenant, che aveva partorito un disco sinceramente imbarazzante. Meglio allora rispolverare il vecchio nome, il vecchio repertorio, riarruolare Gillian Gilbert alla tastiera, fare felici i fan e soprattutto intascare un sacco di soldi. I New Order, come detto, iniziano venti minuti prima del previsto e la loro setlist è purtroppo più breve rispetto a quella suonata negli altri festival europei. Sono comunque protagonisti di un live intenso ed emozionante, nel quale non mancano le pietre miliari della loro carriera, tutte accompagnate da splendidi videoclip come sottofondo. C’è Crystal, che segnò il loro ritorno nel 2001, canzone perfetta per scaldare un festival intero. C’è Regret, pop rock sdolcinato ma di qualità eccelsa. Non mancano certo due giusti tributi ai Joy Division come Isolation e la finale Love Will Tear Us Apart, che emozionano tutti i presenti. Ma il meglio del concerto è nella parte centrale, con cinque canzoni che vanno doverosamente elencate: Bizarre Love Triangle, True Faith, The Perfect Kiss, Blue Monday e Temptation. Questi brani, in un’orgia di chitarre e sintetizzatori, rappresentano la quintessenza della musica neworderiana: nessun’altra band è mai riuscita a creare una simbiosi tale tra elettronica e rock, ed onestamente l’assenza di Hook non si sente affatto, anche perchè Bernard Sumner – seppur invecchiato e appesantito – tiene splendidamente la scena e sembra addirittura cantare meglio rispetto a qualche anno fa. In concerti simili ci sono poi quei momenti che ti rimangono scolpiti a vita nella mente. A me capita quando ballo “True Faith”, con sullo sfondo quel video che ha fatto storia: in quel momento penso che la critica musicale dovrebbe fare un po’ meno la schizzinosa sulle varie reunion in giro, perchè saranno pure squallide ma ti permettono di vivere emozioni sinceramente impagabili. Dopo questa mia recensione dei New Order, equilibrata come Minzolini che intervista Berlusconi, mi tocca parlare dei Cure. Che dire? Non sono un fan ma li rivedo sempre con grande piacere, essendo dal vivo un’autentica macchina da guerra. Mai una sbavatura, tutto perfetto, Robert Smith ha una voce che non sente minimamente il peso del tempo (sinceramente impressionante, soprattutto durante The Edge Of The Deep Green Sea) e Gallup è sempre una garanzia. Il parcheggio della fiera di Rho non è certo uno scenario poetico come il Teatro Greco di Taormina (un paragone tra Elvis Presley e Little Tony è meno impietoso) che li vide protagonisti di una serata straordinaria nel 2005, ma i Cure ricreano anche stasera la magia, una magia alla quale – non essendo un grande appassionato della band – partecipo solo parzialmente a differenza del 99% dei presenti. La carrellata di brani storici è impressionante, alla fine la scaletta ne conterà ben trentaquattro. Ce ne fossero di band come i Cure che suonano tre ore per ogni live. L’Heineken termina qui ed è promosso nonostante gli orari totalmente sballati dell’ultima giornata. Aggiungere l’anno prossimo uno stage alternativo (con dentro magari gente come Bon Iver e Flaming Lips) e complementare al palco principale sarebbe una gran cosa che porterebbe finalmente il caro vecchio HJF al livello di altri importanti festival continentali. La vedo dura, ma prima o poi l’Italia dovrà pur svegliarsi sul fronte festival.

 Galleria fotografica su Flickr

A cura di Karol Firrincieli

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