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Metz – 17/11/2013 – Milano – Lo-Fi

E’ domenica sera, è ricominciata quella pioggerellina nebulizzata e insulsa tipica milanese e sono reduce da una doppietta alcolica venerdì-sabato che mi ha letteralmente lessato le sinapsi: gli ingredienti per un concertazzo noise all’apice dell’hangover ci sono tutti.

Armi e bagagli, mi fiondo al Lo-Fi per assistere, finalmente, a un concerto dei Metz, trio canadese che lo scorso anno ha folgorato me e parecchi altri signorini con un debutto eccellente su Sub Pop. Me li ero già persi live lo scorso febbraio, non avrei potuto perseverare dando buca anche stavolta.

Ma procediamo con ordine. Appena metto piede al Lo-Fi il primo gruppo sta già arroventando i timpani dei non tantissimi accorsi all’evento. Mai che arrivo una volta in orario. Ci sono gli His Electro Blue Voice, trio comasco che incide, udite udite, per Sub Pop. Sì, made in Italy purosangue presso una delle scuderie rockettare più prestigiose del pianeta. Artefici di un post-punk abrasivo e senza compromessi che copula spesso con quel kraut viscido di stampo Oneida-Guapo, i tre meritano di stare dove stanno. Sputano fuori elettroni incandescenti e il cantante Francesco Mariani digrigna dietro il microfono. La band è in palla e proprio quando il mio mal di testa post-vodka inizia ad attenuarsi e sto per acclimatarmi, tac, il set finisce. Mi becco solo due pezzi, ma tant’è. Li voglio rivedere, su disco sono intriganti, dal vivo picchiano.

Cambio palco e salgono i Cheatahs. Insieme a me c’è il capo Emanuele Brunetto che mi istruisce sul gruppo riferendomi che sono stati descritti dalla stampa specializzata come la new sensation del non-so-che. I quattro londinesi sono una di quelle band a rapida scadenza, ti paiono interessanti i primi due pezzi, al terzo inizi a sentire puzza di pesce marcio, al quinto vuoi amputarti un testicolo. Non scarsi ma neanche bravi, la new sensation dell’insipienza. Un’ostentazione retrò anni Novanta che anziché essere trendy risulta vetusta, dal pungente olezzo di naftalina. Il cantante non si capisce che diavolo stia cantando, i suoni sono impastati, il batterista non cambia passo neanche sotto la minaccia di un revolver, perennemente adagiato su quel 4/4 tra 160 e 170 bpm. Poi il sottoscritto digerisce a fatica i gruppi che hanno un’accanita predilezione per l’accordo maggiore sempre-e-comunque. Il tutto, coniugato al riflusso alcolico che bussa alla porta del mio cranio, dopo un po’ mi fa dire: basta, mollatemi. Eppure, stoico, resisto fino alla fine. Non mi avrete. Hanno ascoltato tanto grunge ma ancor di più i Pixies e i Dinosaur Jr, ma a volte mi domando cosa vogliano combinare con quelle canzoni che sembrano durare un’eternità. Fin qui due ep pubblicati per Wichita Recordings, a febbraio 2014 esordiranno su lunga distanza. E sapete qual è il mio coefficiente d’attesa? Indovinato: meno di zero tendente a infinito.

Il mal di testa è riaffiorato, non prendo neanche una birra che il sol pensiero di una bevanda fermentata mi mette la nausea, poi dopo i quattro nostalgici d’Albione mi sento anche un po’ depresso.

Vabbè, ora tocca ai Metz. La vera attrazione è il frontman Alex Edkins: biondo coi capelli tirati in avanti, occhialoni da nerd e imberbe, sembra Bill Gates 30 anni fa. Poi quando attacca a suonare la patina da sfigato vittima dei bulli della scuola sparisce e viene fuori una furia belluina. Il trio di Toronto mette davvero a ferro e fuoco palco e padiglioni auricolari con le loro bordate noise-core figlie maledette dei Fugazi e degli Shellac, ma non solo. L’impatto, nonostante la chitarra sia settata su taglienti frequenze alte, è realmente metal. E se su disco sembrano feroci, la brutalità del loro sound dal vivo è condotta al parossismo. Il basso di Chris Slorach è saturo e distorto – ma forse un po’ troppo sotto nel volume complessivo –, il drumming di Hayden Menzies è isterico e sferzante. Edkins latra come una delle tre teste di Cerbero, si dimena, sale sulla gran cassa, agita la chitarra. Tutti e tre tengono il palco egregiamente. Il set prevede l’esordio omonimo dello scorso anno nella sua interezza. Arrivano così legnate che si chiamano Sad Pricks, Negative Space, Knife In The Water, Get Off, Headache. Compatti e senza sbavature, i Metz tengono in pugno i presenti con uno smaccato spirito hardcore. Il finale, poco dopo che Slorach incappi in un inconveniente tecnico col basso rapidamente risolto, è affidato a una Wet Blanket da paura, con un acido climax finale che strappa via le meningi. La soddisfazione è tale che il mal di testa lentamente s’è vaporizzato, sostituito da quel gradevole e necessario fischio alle orecchie.

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