
A qualche ora dal rientro in Italia con un volo Manchester-Bergamo, non avevo messo in conto di scrivere il report su uno dei tanto attesi concerti degli Oasis a Heaton Park, quello di mercoledì 16 Luglio. Una tappa “saltata”, da giornalista musicale ma soprattutto da appassionata di musica espressa anche attraverso le parole, per almeno due motivi:
- Per l’evento epocale della reunion tanto sognata quanto data ormai per spacciata fino all’Agosto di un anno fa, per i live dei fratelli Gallagher già andati in scena tra Cardiff e Manchester, siamo stati inondati di countdown, articoli, reels, frame a rallentatore, galleries – come è sacrosanto che fosse per i canali contemporanei di comunicazione della musica – che, per più di un attimo, nella mia testa, l’ennesimo racconto è assomigliato sempre più ad una goccia in un oceano. “Mi godrò l’esperienza, farò i miei video, le mie foto, canterò a squarciagola e infiocchetterò il tutto in un posto speciale, nel cassetto dei ricordi”, erano le considerazioni in loop nei giorni prima della partenza.
- Lo spettro dell’imprevisto dietro l’angolo. Del concerto degli Oasis era stato quasi proibito parlarne “finché non ce l’hai nel sacco”, per una sorta di scaramanzia alimentata soprattutto dai miei compagni di avventura, in particolare da Matteo, a cui sarò eternamente grata per aver riservato a me uno dei quattro biglietti conquistati come “malati di Oasis”, iscritti da sempre al fanclub ufficiale. Ci siamo conosciuti e riconosciuti per attitudine rock‘n’roll proprio di fronte ai palchi ed in questa occasione – stranamente – sono stata io quella incaricata a tenere a bada l’ansia catastrofista che, negli ultimi mesi, era stata ribattezzata “Sally”.
Loro hanno vissuto gli Oasis della “next big thing”, della Cool Britannia, del derby con i Blur, della corsa al negozio di dischi ad ogni nuova uscita, di Heaton Park nel 2009, dello scioglimento della band poche ore prima di salire sul palco del Rock en Seine di Parigi e dei biglietti mai “strappati” della data di Milano. Dopo l’annuncio della reunion, il 27 Agosto 2024, seguita dalla notizia del tour in UK e Irlanda, i miei e i nostri eroi non solo sono riusciti ad accaparrarsi i biglietti ma la dea bendata ha fatto sì che arrivasse anche la mail della “vittoria del front stand” (e chi lo cancella più quello screenshot arrivato su whatsapp!). Ecco, a chi riesce a fare l’equazione “TOT SOLDI SPESI PER QUESTI DUE PAZZI CHE CI HANNO FATTO STARE TANTO BENE QUANTO STARE MALE = TOT CASE PROBABILMENTE ACQUISTATE SE NON FOSSE PER QUESTA PASSIONE SFRENATA”, non puoi dire con tanta leggerezza frasi come “quando saremo a Manchester…”, “per che ora dobbiamo metterci in coda?” o, tantomeno, “sto valutando se scrivere il report”, perché la risposta sarà sempre e solo un rumorosissimo “shhhhhhhh”, accompagnato da “recupererò la tranquillità solo quando saremo nell’ascensore dell’hotel a fine concerto, così vorrà dire che è andato tutto bene”.
Ed è andato tutto bene, anzi, alla perfezione. Perché è mercoledì 16 Luglio e a Manchester splende un bel sole fin dalle prime ore del mattino; perché ci siamo immersi in una città immersa a sua volta in un’atmosfera “Oasis” dalle fondamenta alla perdita d’occhio dei mattoncini marroni delle case, dei palazzi, dei pub; perché siamo entrati nel pit numero 1, tra i primi 9.429 (più precisamente indosso ancora il bracciale con il numero 00684 su poco più di 50.000 persone dato che Heaton Park, in settimana, è a capienza ridotta); perché con il palco così vicino non dobbiamo nemmeno guardare i maxischermo e si è elevata a potenza l’euforia, l’incredulità, la voglia di cantare, di gridare: “Ce l’hanno fatta, ce l’abbiamo fatta!”.
Quindi sì, ho deciso di scrivere il report e ringrazio le preziose pagine de Il Cibicida per avermi ed averlo accolto. L’ho deciso un po’ per l’epicità dell’evento, un po’ perché quando sui ledwall è apparso Liam con lo sguardo strafottente e il dito puntato, è stato un segnale che ho preso come “dai muoviti! basta seghe mentali”, un po’ perché – oltre tutti i nuovi media – imprimere le emozioni nero su bianco dà sempre l’impressione di renderle davvero indelebili.
Sarà un racconto suddiviso in capitoli, intitolati con alcuni versi dei brani degli Oasis che, in quei frangenti, hanno racchiuso, condensato, mistificato tutto ciò che stava accadendo, dal vivo. Insieme, finalmente riuniti.
1) “I live my life in the city / There’s no easy way out” (Rock ‘n’ Roll Star)
Assistere a uno dei concerti degli Oasis a Manchester è il non plus ultra dell’esperienza “back to brit-rock” legata alla rocambolesca parabola di conquista del mondo dei fratelli Gallagher. Consacrata musicalmente dagli antenati, dalle pietre miliari poste da Joy Division, The Smiths e Stone Roses, Manchester dalla metà degli anni Novanta è patria degli Oasis. E gli Oasis sono Manchester (City). Ogni traccia di Definitely Maybe, l’album del leggendario debutto del 1994, è profondamente radicata nei quartieri popolari in cui Liam e Noel sono cresciuti, in cui la madre Peggy vive ancora (nel quartiere di Burnage), nell’offrire un forte messaggio di affermazione e speranza, nell’ambizione di volare via di diventare qualcuno. Una formula perfetta composta con melodie e linguaggi chiari, semplici: mentre la lunga era post punk, culminata con il grunge all’inizio degli anni Novanta aveva celebrato la negazione e fatto virtù dei motivi di morte e sconfitta, quei testi degli Oasis parlavano di un desiderio di vivere con tutto il cuore e accennavano alla possibilità di ottenere una sorta di vittoria spettacolare, sgusciando via dall’incubo degli anni Ottanta.
Un salto quantico di immaginazione dagli scantinati alle stelle, un’iperbole che decolla in quel tempo presente che compare sul Rock ‘n’ Roll Star: non si canta stanotte “sarò” ma stanotte “sono” una rockstar. Ed è proprio così che ci si sente a passeggiare per Manchester, durante i giorni, durante le ore che precedono il live. Una vera e propria “Oasisland”. Dai cartonati di Liam e Noel che ci accolgono nella hall dell’hotel per il check-in in piena notte, dalla segnaletica, alle vetrine, ai bus brandizzati, dalle playlist a tema che riecheggiano in ogni negozio di dischi vestito a festa con le copertine dei vinili in esposizione, al quadrilatero sacro segnato in rosso sulla mappa dei luoghi da visitare:
- Lo stand del merch ufficiale nella piazza principale;
- Lo store Oasis;
- Lo store dell’Adidas che, per l’occasione, ha creato la collezione “the band with the 3 stripes”;
- I murales nel Northern Quarter, all’angolo tra Thomas Street e High Street.
Messa la bandiera sui quattro punti cardinali, indossata la “divisa” da concerto immediatamente dopo gli acquisti pazzi, ci mimetizziamo nel fiume umano di bucket hats, maglie del Manchester City, t-shirt più o meno ufficiali, più o meno storiche che scorre per le vie del centro, arriviamo puntuali per la prenotazione al Definitely Maybe Pub, una sorta di Hard Rock Cafè dedicato alla band, allestito in ogni centimetro di poster, memorabilia, testi, dischi di qualsiasi lega metallica esistente sul pianeta. Qui beviamo la prima birra, cantiamo Little By Little unendoci al coro dei tavoli, ammiriamo foto e oggetti sacri, ci facciamo tentare dal tattoo corner. Qui vanno in scena i party pre e after show con musica dal vivo e djset. Lo stesso avviene nella maggior parte dei locali di Manchester, in una programmazione infinita di format “mancuniani” tra cui spicca l’official aftershow al New Century Hall, nei pressi di Victoria Station, che vede nella line up ufficiale dei DJ/ospiti: Bez degli Happy Mondays, Clint Boon degli Inspiral Carpets, Mani dei The Stone Roses, Tin Tin il tour DJ dei New Order e Col White della Vinyl Revival Records. Tutto è settato affinché ogni esperienza sia biblica, per utilizzare il gergo di Liam.
Ed è giunto il momento di farne parte, di avviarci ad Heaton Park. Apertura cancelli ore 15.00. Due modalità principali per raggiungere la venue: la Walking Route, itinerario pedonale di novanta minuti a partire dal centro città e le navette continue che sembrano moltiplicarsi come per miracolo. Noi siamo già muniti di biglietto per il bus (i miei compagni di viaggio sono Argonauti dei concerti, tutto è organizzato al dettaglio): è ora di entrare.
2) “Bound with all the weight of all the words he tried to say / As he faced the sun he cast no shadow” (Cast No Shadow)
Scendiamo dal bus, ci armiamo dei nostri biglietti rosa del front stand, superiamo file chilometriche, varchiamo le porte del paradiso del pit, gridiamo, sorridiamo, ci abbracciamo. Siamo dentro, di fronte al palco, in posizione più che privilegiata. Un paio di giri di birre sotto il sole che picchia ancora forte, qualche stretta di mano con i fan inglesi, giapponesi, argentini nostri vicini di “accampamento”, ed ecco che entrano i Cast, primo opening act. Avevo già visto la storica band di Liverpool alla Coop Live Arena, nel Giugno 2024, in occasione del concerto di Liam Gallagher per la celebrazione del trentennale di “Definitely Maybe”. Stessa impostazione, stessa attitudine ed esperienza, stessi pezzi evergreen e tanta leggerezza, utile a sciogliere un po’ di tensione e a farci realizzare, al contempo, che su quel palco su cui svetta la mega “patch” Oasis si suona davvero e ci siamo quasi.
Per il secondo opening act, quello di Richard Ashcroft, frontman dei The Verve, devo fare una premessa. Intanto il titolo del paragrafo è dedicato a lui, come dedicata a lui – per antonomasia – è Cast No Shadow degli Oasis. Pur non avendo mai sciolto il dubbio se la sua descrizione nel brano corrisponda a quella di una strega, di un vampiro o di un qualche essere talmente magro da non fare ombra, Richard Ashcroft si è sempre dichiarato onorato di essere parte della canzone, come è evidente che sia onorato di scaldare i motori, prima del main event. Anche io devo ringraziare Liam e Noel, o chi per loro, per questa scelta, perché vedere dal vivo Richard Ashcroft è l’ennesimo sogno realizzato. Sono molto affezionata alla sua musica e a lui come “umano-troppo-umano” del britrock: il connubio tra talento sconfinato e fragilità mai nascosta, la personificazione della domanda “perché non ce l’ha mai fatta davvero, come loro?”. Negli anni d’oro della scia british, le canzoni dei The Verve si intervallavano nei nostri lettori cassette e CD a quelle dei Gallagher ed ora, a Heaton Park, la voce di Richard risuona in tutta la voglia di essere lì, in tutta la sua potenza graffiata. Cantiamo con lui The Drugs Don’t Work, Sonnet, Lucky Man e, soprattutto, Bittersweet Symphony, il capolavoro dalla storia travagliata che lui stesso ha spesso definito “the song for the people”. Parte l’intro: un boato.
Devo fare una confessione: in tutta la serata non ho pianto tanto quanto durante Bittersweet Symphony. È davvero la melodia di cui si va alla ricerca per far vibrare substrati di dolore, per liberarsene e affermare il diritto di essere se stessi, di camminare a testa alta, come lungo il marciapiede di Hoxton Street del video. Un momento catartico e l’inizio di discorsi tipo: “Ma una reunion dei The Verve, nel 2027, per il trentennale di Urban Hymns, no?”.
Ashcroft saluta, e per noi è arrivata l’ultima, difficilissima fase di attesa. Sappiamo che i nostri cari fratelli usciranno intorno alle 20:15, con la luce del giorno, a seguito delle normative inglese sugli orari degli spettacoli all’aperto. Ci avviciniamo sempre di più gli uni agli altri, qualche passo in avanti in direzione del palco. Parte il countdown, alle nostre orecchie arriva l’intro per eccellenza, Fucking In The Bushes, sugli schermi i titoli di giornali, dichiarazioni, tweet si susseguono all’impazzata. Sta succedendo, “This is happening”, ci conferma la scritta a caratteri cubitali. THE WAIT (16 c***o di anni) IS OVER. Visibilio, delirio, unisono di grida.
Ladies and gentlemen: gli Oasis. Liam e Noel Gallagher (che non toglieranno mai gli occhiali da sole per tutto il live) salgono sul palco con le mani alzate, unite. Noel fa cenno al fratello di mettersi comodo, al centro, e abbraccia la sua chitarra. Liam, con la solita espressione da “sì, sono Dio”, si avvicina al microfono, mani dietro la schiena, mento alto: “Oasis fans in the area? Manchester vibes in the area?”.
È il segnale, è tutto vero.
3) “There are many things that I would like to say to you / But I don’t know how” (Wonderwall)
“Non si può raccontare, non lo voglio raccontare”, mi dice il mio amico Matteo, con le lacrime agli occhi, dopo il “ciao”, con Hello, a cui si sono susseguite Acquiesce, Morning Glory, Some Might Say, Bring It On Down, Cigarettes & Alcohol, Fade Away, Supersonic, Roll With It. Poi la sostituzione con Liam degna di un cambio campo-panchina del Manchester City e Noel ci delizia in un se acustico con Talk Tonight, Half the World Away, Little by Little.
Come lo spieghi, in effetti, che questa band ha unito intere generazioni, ne ha segnato i momenti cruciali, diventando le voci e le noti di attimi di vita, di storie d’amore, di abbracci con le persone più care o con qualche sconosciuto che per qualche ragione – o per qualche birra in più – su quei brani veniva eletto come nuovo migliore amico. Come lo spieghi che, pur non facendo nulla di eclatante, non dimenandosi, pronunciando soltanto qualche parola tra un pezzo e l’altro, riescono a creare una magia data dal mix fottutamente perfetto del timbro “da strada”, nasale, ruvido di Liam – in forma smagliante! – e quello più morbido, melodico, malinconico di Noel. “Sentirle di nuovo insieme, era ciò che ho atteso e desiderato di più”, aggiunge Matteo. Ed è così, tanto che l’unica espressione che può venire in mente è davvero D’You Know What I Mean, su cui Liam torna al microfono e si prosegue il grande rito collettivo con Stand By Me, Cast No Shadow, Slide Away, Whatever, Live Forever, Rock ‘n’ Roll Star.
Non è una setlist, è un greatest hits, è un biglietto con la richiesta di perdono per tanti anni di sospensione, per tutte le liti che hanno fatto vacillare il mito finché gli Oasis sono esistiti, per la parabola “decadente” degli ultimi album, per i concerti annullati o zoppicanti. Perdono concesso, sembra tutto dimenticato, come se il tempo non fosse mai trascorso. Cantiamo fino a perdere la voce, ci stringiamo gli uni con gli altri, ci guardiamo commossi, increduli. Per tutti noi, per tutti gli oltre 50.000 presenti a Heaton Park, la vita è andata avanti: ci sarebbero milioni di cose da dire – appunto – ma è già tutto lì. Non sappiamo come dirle, ma va bene perché tutto sembra essere tornato in ordine, da vivere così, per sempre.
4) “I think you’re the same as me / We see things they’ll never see” (Live Forever)
Il tramonto, sui brani prima dell’encore, rende tutto più suggestivo. È difficile distinguere le voci dal palco da quelle intorno, è un coro continuo, la tipica atmosfera da stadio – connaturata, forse, nel DNA inglese – che soltanto gli Oasis sanno creare, mantenere, far vivere e rivivere. Avere la percezione di condividere lo stesso spirito, lo stesso modo di essere. Vedere le cose che gli altri non sono in grado di vedere come biglietto di ingresso per una dimensione di immortalità, per quel mondo dove ci si può sentire, anche solo per un attimo, invincibili. Il sentimento che il critico musicale Alex Niven, soprattutto in riferimento alle origini e all’estetica viscerale del gruppo, ha definito “ottimismo radicale”, una specie di speranza esagerata in un futuro migliore. E sappiamo tutti, oggi, quanto ce ne sia bisogno. Come ce ne era bisogno quando Liam e Noel dichiaravano di essere la migliore band in circolazione perché a loro era stato dato il potere – citando ancora Niven – “di cogliere il granello di polvere in uno stadio”. Captare, tradurre, esprimere il personale, nell’universale. L’universo che ognuno di noi vive attraverso milioni di sfumature ma che può ritrovare in quelle parole, in quelle canzoni.
5) “Two of a kind / We’ll find a way to do what we’ve done” (Slide Away)
La notte inglese avvolge Heaton Park per un encore da pelle d’oca con The Masterplan, Don’t Look Back In Anger, Wonderwall e il finale affidato a Champagne Supernova, illuminata dai fuochi d’artificio. Gli Oasis, Liam e Noel, salutano velocemente, scendono dal palco, lasciano a noi il compito di iniziare a metabolizzare tutta l’esperienza. Restiamo in silenzio, cerchiamo sguardi che ci assomigliano, ci incamminiamo sulla via del ritorno.
E ora che si fa? Come se ne esce? Come si scende dalle spalle di chi ci ha sollevato per rendere indissolubile il ricordo della nostra canzone preferita? Durante il concerto, senza dover neppure chiedere, sono stata sollevata sulle spalle per Slide Away. È la MIA canzone degli Oasis. Da quella prospettiva unica, guardando l’intera distesa di anime sognanti, ho chiuso cerchi, ne ho aperti di nuovi, in un giro di vita in musica a 360 gradi. Perché oltre le attese, oltre la spacconaggine che ha contraddistinto i fratelli Gallagher fin dal principio, c’è sempre stata l’ambizione di rivolgersi davvero a tutti. Riprendendo Alex Niven, tale imprinting rappresenta l’estensione di una visione indiscutibilmente popolare, fondata sulla solidarietà e sulla fratellanza. Il concetto di “sentimento oceanico”, della condivisione e della connessione, oltre l’individualismo, al di fuori di sé. Questo, in fin dei conti, è la musica degli Oasis. Questo per me è Slide Away, nella capacità di colmare il divario tra il personale e l’universale. Il punto di equilibrio tra vulnerabilità e rabbia, tra dubbio e certezza, tra paura e coraggio. E sono Liam e Noel a identificare le due forze che convivono, si scontrano, si allontanano, si avvicinano, si riuniscono, proprio come accade in ognuno di noi. Proprio come è accaduto, ad Heaton Park, in ognuno di noi.