Il Primavera Sound è sempre riuscito a ricambiare l’affetto e la fiducia che i frequentatori del festival nutrono nei suoi confronti, siano essi gli affezionati che vanno a Barcellona da 19 anni o chi l’ha scoperto da poco. Stavolta, per esempio, hanno rivelato in anteprima al pubblico l’headliner dell’edizione 2020 regalando delle cartoline all’interno del Parc Del Forum con scritto Pavement, per sottolineare che il ventennale dell’evento sarà una grande celebrazione dell’indie rock e della musica alternativa a colpi di tanti ospiti storici come la band di Stephen Malkmus. Quel che è avvenuto nell’edizione del 2019 è però un cambio di rotta radicale che segna probabilmente un punto di non ritorno dal momento che gli “esperimenti” nella creazione della line-up, possiamo dirlo a edizione conclusa, sono pienamente riusciti. Il claim del Primavera Sound ’19, pubblicato insieme all’annuncio degli artisti nell’autunno dello scorso anno, è stato l’hashtag “new normal” ed il perchè è spiegato in modo esaustivo sulla borsa di stoffa verde distribuita ai giornalisti:
Accogliere la musica della nuova generazione senza dimenticare come siamo arrivati qui. Ecco, l’ultima frase può riassumere il perché il Primavera Sound è IL festival per eccellenza, un’avanguardia internazionale di cui la città di Barcellona fa bene a vantarsi, frequentato non solo da “semplici” amanti della musica, ma anche da artisti, addetti ai lavori del music business e organizzatori di eventi da tutto il mondo interessati a scoprire cosa funzionerà a livello di concerti nel futuro e come si organizza un evento nel presente. Mentre, per esempio, qui in Italia si continua a far notare senza nessuna efficacia che festival musicali (vedesi i cartelloni di TOdays, Firenze Rocks, etc.) e rassegne come il Concertone del Primo Maggio di Roma sono composti al 99% di artisti uomini, gli organizzatori del Primavera sono riusciti a creare una line-up senza eguali con un equilibrio perfetto tra maschi e femmine, col merito di aver messo sotto i riflettori artiste che difficilmente avremmo visto in giro.
Anzi, un po’ per ovvio interesse personale, un po’ per scelta artistica e politica, quest’anno è stato obbligatorio preferire alle band “classiche” (con frontman e musicisti uomini, è un semplice dato di fatto) i concerti di grandi donne esponenti di qualsiasi genere musicale, dall’r’n’b all’hip hop passando per il punk vecchio stile, l’indie con le chitarre e il pop che più pop non ce n’è. E dire che di band storiche e prestigiose per accontentare i frequentatori della prima ora ce n’erano, anzi c’erano le migliori in circolazione in questo momento (Primal Scream, Interpol, Low, Guided By Voices, Stereolab, Tame Impala, Mac DeMarco, come vi abbiamo già segnalato prima del festival), insomma il meglio del meglio anche in questo versante.
Ma il trionfo di questa edizione, dai due mainstage ai palchi più piccoli, è innegabilmente femminile, femminista, afroamericano, omosessuale, contro status quo del rock e questo è un segnale che non si può più ignorare a livello internazionale, dal momento che non lo fa più il Primavera, il taste maker dei festival. Se il reggaton e la musica urbana sono al Primavera, allora questi generi musicali saranno legittimati anche negli altri festival grandi e piccoli. Se il gender balance non è un qualcosa per riempirsi la bocca ma un atto artistico concreto, allora gli organizzatori più svegli in futuro si impegneranno in tal senso. Siamo all’esatto opposto di un messaggio da bollare come petaloso o buonista o come minchia si dice su internet, perché si parla di grandissime performance che non hanno lasciato spazio a dubbi, rimpianti e lamentele.
Erykah Badu e Solange, headliner rispettivamente della prima e dell’ultima giornata, hanno dato vita a due messe soul/r’n’b capaci di far convertire al Cristianesimo o a qualsiasi culto sciamanico stessero professando anche il più ateo o metallaro. La prima, nelle vesti di sacerdotessa e regina dei grandi cappelli, gioca col suo repertorio di grandi classici (On And On, Apple Tree, una cover di Liberation degli Outkast) e con la sua band in stile George Clinton; la seconda, incastonata in una scenografia minimale, sprigiona tutta l’energia e la solarità possibile scaturite dalla gioia di riavere un pubblico davanti dopo, come ricorda lei, anni di malattia e ospedale durante i quali ha partorito quella perla appena pubblicata di “When I Get Home”. Altro che la megalomania della sorella, è lei la vera artista visionaria in famiglia e pezzi come Cranes In The Sky o Almeda dal vivo fanno volare in alto nei cieli.
Il sabato sera ha visto esibirsi di fila in un tripudio di ritmi latinoamericani e ispanicità l’inarrestabile Nathy Peluso, che sembra D’Angelo caduto nel corpo di una tamarra argentina e fa divertire tutti, Kali Uchis che ammalia con i pezzi del suo bellissimo “Isolation” e la sua faccia da Lola Bunny, ma soprattutto Rosalía. Profeta nella sua città natale (infatti parla catalano con il pubblico tra un pezzo e un altro), si esibisce in un’ora da vera artista completa in ogni disciplina, tanto da farla sembrare la giusta via di mezzo tra qualcosa di genuinamente popolare e avanguardistico à la Björk, senza eccedere in nessuno dei due aspetti. Chi può condensare in un live il flamenco più tradizionale, il reggaeton, la trap e un duetto di gran classe con James Blake?
Se aver visto Rosalía a Barcellona nel suo momento di gloria fa pensare di aver assistito a qualcosa di veramente importante e storico, la mente e le orecchie non possono che tornare a pensare a FKA Twigs che a notte fonda del giovedì atterra dallo spazio sul Rayban Stage e si esibisce in un concerto che sarebbe da avere in DVD anziché da ricordare semplicemente a parole. Basterebbe vederla fare pole dance per rimanere completamente rapiti dalla sua figura, ma Dio ha donato a Tahliah Barnett anche un controllo vocale incredibile e la capacità di creare un vero e proprio spettacolo in cui coreografie e cambi d’abito sono importanti tanto quanto i pezzi. Un live ultraterreno, un’artista totale di cui non vediamo l’ora di sentire il nuovo album.
L’elenco delle grandi donne che si sono esibite potrebbe essere lungo tre giorni come il Primavera: una Janelle Monáe che fa uno show da Broadway diventando l’ufficiale erede di Prince, o almeno la futura presidentessa degli Stati Uniti, visti i suoi discorsi illuminati e i suoi simbolici pantaloni a forma di vagina; Kate Tempest che anche senza coreografie e tanti espedienti, ma solo con la sua abilità poetica, regala una delle esibizioni più commoventi del festival (segnatevi un inedito, People’s Faces, che vi farà piangere anche dalle ascelle appena uscirà il disco); Little Simz che si conferma come il futuro più roseo dell’ hip hop inglese, con i pezzi del suo ultimo “Grey Area” che dal vivo diventano una mina pronta a esplodere. E poi ancora Linn Da Quebrada che canta il baile funk e mette simpaticamente i dildi in bocca alla sua corista, l’energia di Amyl and The Sniffer, Nene Cherry, i Big Thief di Adrienne Lenker, Julien Baker, i dj set sempre di alto livello di Nina Kravitz e Peggy Gou…
Come ciliegina sulla torta di quest’edizione c’è stata la percezione non solo del clima più disteso e pacifico che mai si possa respirare tra il pubblico di un festival, ma anche una certa “sorellanza” e unione tra artiste grazie ai continui richiami e riferimenti tra una donna e un’altra presenti al Primavera: Solange ha detto che non si sarebbe persa gli show delle sue amiche Lizzo e Thierra Whack ed era fiera dell’influenza sempre crescente di giovani artiste afroamericane come loro, Snail Mail ha chiesto se anche il suo pubblico avesse visto quanto ha spaccato FKA Twigs il giorno prima, Charlie XCX ha duettato con Christine and The Queens e dedicato Girls Night Out all’amica Sophie e così via. Altro che dissing, è il nuovo normale e speriamo lo sia sempre di più per tutti.