
L’astronave è già parcheggiata sul pavimento dell’Unipol Arena quado il palazzetto apre le porte. Una navicella ancora più spettacolare di quanto non suggerissero le foto. L’astronave dei Radiohead, al quarto e ultimo concerto di Bologna, ricorda un gazometro da cui guardare attraverso. Qualcuno da dietro dice “è uno stargate”, e ha ragione. Intanto luci colorate rimbalzano da una parte all’altra rintoccando con piccole note come nella famosa scena di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Perché è di questo che si tratta in questo momento della nostra vita: di un incontro che non ci aspettavamo, che non ci auguravamo più, dopo sette anni di nulla. Un tour che cala dall’alto in mezzo agli impegni di Yorke e Greenwood con gli Smile, una specie di codice morse che forse vuole dirci qualcosa.
La rivelazione avviene puntuale, alle 20:30, lo stargate prende luce, esplode. I Radiohead ci vorticano dentro. “È la via del diavolo, non c’è via d’uscita” – ancora invisibile agli occhi, Yorke esordisce con 2+2=5, un pezzo politico. Il pubblico ritrova i Radiohead (non pare vero) e si scuote in un collettivo “pay attention”, strillato all’unisono, che è qualcosa di più di un monito, è un avviso ai naviganti, anno 2003.
Quando la navicella ritira i suoi portelloni finalmente ecco la band nelle sue fattezze umane. Essenziale, dritta ma mobile nelle posizioni da prendere sul palco, a eccezion fatta di Phil Selway, inchiodato alla batteria e al ritmo incessante. Gli altri, come detto, danzano sugli strumenti come un quadro di Matisse. Ed è proprio il movimento di Thom ad essere mappa sentimentale dello show: percorre l’ovale ora con piglio discreto, poi euforico, con la chitarra da cullare e quella da volteggiare. Jigsaw Falling Into Place è la delirante mutazione dei Radiohead che trasformano il bianco in fucsia. Le immagini frantumate, pixelate, quadrettate, incombono sul pubblico. Led, cristalli liquefatti, microcamere.
Che strano lo spazio. Torni e non sei invecchiato. O almeno è accaduto a Jonny Greenwood. La sua è una silhouette da adolescente. Un uomo ragazzino. Senza occhi. Con le stesse punte dei capelli di trent’anni fa a nascondergli la faccia. Jonny non esiste. È musica esattamente come il braccio ligneo di una chitarra o la testa di gomma dello xilofono che suona in No Surprises. “Un cuore pieno come una discarica / un lavoro che ti uccide lentamente” – Thom e la litania mortale. Un pezzo politico anche questo, se qualcuno non se ne fosse accorto.
Thom va al piano. Si prende la scena. Poi si alza, balla, si riaccuccia. E ancora danza disarticolato, passi lunghi, passetti di un ET febbrile. È un uomo orrendo e meraviglioso, un mostro, un genio, uno da evitare, da abbracciare. Forse semplicemente un artista.
Quando arriva Exit Music (For A Film), poi, succede qualcosa. Il computer non esiste più, quella scatola bianca si è mangiata tutto. Il 1997 sembra ieri e duecento anni fa. I Radiohead la fanno piombare definitiva con quell’ottovolante acustico-elettrico-ancestrale-minimale-drammatico-purificatorio. “Speriamo che le tue regole e la tua saggezza ti soffochino” – lanciata al cielo, è un’invocazione. Politica.
Si potrebbero dire tante cose ancora. Si potrebbe dire che ieri a Bologna è arrivato il primo freddo invernale prima dell’inverno. Che Everything In Its Right Place, posta alla fine del concerto, lei, che è da sempre un preludio, racconti il giro mortale di inizio e fine. Che nella dolce e tremenda Let Down Yorke aspettava gli crescessero le ali ed è accaduto se ci pensate. Che il pianoforte di Pyramid Song sia l’altro lato dello stargate: dove le piramidi sono navicelle e gli imperatori ragazzini fatti di fentanyl. Quando i Radiohead vanno via, l’astronave resta lì. Non riparte. Spenta. Segno che il ritorno è cominciato per davvero. E che questi alieni sono di nuovo tra di noi.
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