Home LIVE REPORT Uzeda @ Wishlist Club, Roma (16/10/2025)

Uzeda @ Wishlist Club, Roma (16/10/2025)

Photo Credit: Il Cibicida / Michele Leonardi
Photo Credit: Il Cibicida / Michele Leonardi

A un certo punto di Stomp, Giovanna inizia a muoversi come un pupazzo a molla e noi con lei in una specie di transfer. Una comunità di gente ai suoi piedi ad imitarla negli scatti, nei rimbalzi. Gente fiaccata da un giovedì di Ottobre ma comunque lì al Wishlist Club perché non si manca a certi appuntamenti. Gli Uzeda a Roma mancavano da dieci anni, nel frattempo hanno tagliato la soglia dei trent’anni di carriera e hanno pubblicato quel tanto sospirato disco che seguisse “Stella”, ovvero “Quocumque jeceris stabit” (2019).

Il tempo non è una questione di poco conto quando si parla di questi ex ragazzi da Catania, basta aggirarsi tra le pareti nere del Wishlist per riconoscere facce che sono specchi. Ragazze diventate donne, ragazzi sbiancati, altri risparmiati. Quella comunità di cui sopra che si rivede in un’attitudine forse morta e sepolta, quella della musica come forma identitaria, che negli Uzeda rimane miracolosamente in piedi grazie al suono, quel suono solido come pietra. Identità significa: un suono con cui confrontarsi e misurarsi. Un pugno di canzoni da sventagliare come bandiere.

This Heat porta subito dentro al vortice levigato a fiamma ossidrica da Agostino, proverbiale nella sua camicia a maniche corte e proverbiale nelle sue smorfie che servono a sostenere il passaggio delle corde, come l’equilibrio per stare in piedi su una tavola in un mare elettrico e salatissimo. Il vigore delle canzoni non conosce fragilità, che ci sono, ma sono tutte subappaltate alle emozioni di Giovanna Cacciola. Nei suoi testi c’è il terrore, ci sono le storie oniriche, c’è la rabbia prima contenuta poi esplosa. Giovanna salmodia, abbaia, ruggisce, parla, mastica onomatopee, versi di animali, mitraglie di guerra oppure, come in Steam, Rain And Stuff, si limita a stropicciare la voce (quasi) senza parole. E prega, a suo modo, per “i fratelli che soffrono dall’altra parte del mare”. Applausi. Non c’è altro da specificare. Red è questo: una preghiera. Quel “heaven” urlato a climax, è un paradiso disperso.

E nel frattempo il pubblico è tornato a muoversi come pupazzi a molla, soprattutto perché Davide Oliveri lì dietro non dà tregua come nelle sue vecchie abitudini. Sì certo, fa impressione non vedere Raffaele Gulisano nella sua posa ieratica al basso, soprattutto in un pezzo come Steel Man. Quella corteccia cerebrale e fisica, vibrazioni di un mondo che cova da sotto. Al suo posto Vincenzo Virgillito, una vita per la musica jazz tra Londra e Catania, catapultato in questa pioggia di fulmini.

A mezzanotte la band viene letteralmente sequestrata dalla sua comunità e costretta a continuare. Qualcuno urla “beddi siti!”, qualcun altro dal fondo rivendica in romanesco che la questione non è solo territoriale. Io abbraccio Agostino e Giovanna a fine concerto. Siamo sudati. Dico ad Ago: “È tanto che non sudavo così”. Poco prima avevo mulinato il mio maglione rosso sui vapori di Sleep Deeper, un gesto simbolico forse, un omaggio spontaneo a Steve Albini, come mi sono convinto durante la notte.

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