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Ypsigrock Festival 2013 – Castelbuono (Pa) – Piazza Castello

Pare che per la festa di Sant’Agata, dal prossimo anno, la processione splendente di candelore non sarà più accompagnata dalle classiche fanfare. “Nossignore!”, ha confidato a pochi intimi il capovara. Dice che ci saranno musiche degli Editors, dice. Che qualcuno ha proposto tali The Drums. E qualcun altro ancora, con l’occhio un poco più lungo e navigato, ha addirittura fatto i nomi di Gang Of Four, Pere Ubu, Primal Scream, Mogwai. Dice che appena la notizia è rimbalzata a Palermo, Messina, Agrigento e in ogni purtusu di questa funerea coloratissima Sicilia, chiunque ha voluto mettersi al passo degli altri. “E chi semu fissa nuatri?!”, è stata la risposta più gettonata. Perché ormai tutti – ma proprio tutti, meno la Regione – hanno capito che dopo quasi vent’anni di prodigi, questo Ypsigrock è in odore di santità. Dev’esserlo per forza. Di cose così, d’altro canto, gli isolani mica ne vedono. Qua nell’isola le cose scompaiono, si smaterializzano, evaporano sotto gli aliti costanti dell’arsura; e quando appaiono, sono guai. Vedi quell’antenna lì, quella che gli americani stanno costruendo a Niscemi! Disgrazie! Solo disgrazie succedono nell’isola! O disgrazie, o miracoli. Vie di mezzo non ce ne sono.

Giunto alla sua diciassettesima estate, il miracoloso Ypsigrock di Castelbuono taglia definitivamente il nastro dei pesi massimi, aumentando di passo in passo la propria statura e l’entusiasmo collettivo che lo asseconda affettuosamente. Con i dovuti “se” e “ma” del caso, ça va sans dire. Perché – chiariamolo subito – a fronte di una crescente, innegabile cura dei particolari e di un successo più che meritato, questo giro di boa ha probabilmente pagato l’assenza di un autentico main act in nome di un carattere maggiormente sfaccettato e popular-friendly, pur distinguendosi come di consueto grazie ad un focus perennemente sul pezzo. Che si tratti di un preciso accentramento direttivo o d’una casuale coincidenza astrale, lo scopriremo – cantava qualcuno – solo vivendo.

9 AGOSTO

In un pomeriggio gonfio di nuvole e attesa, sono i troinesi Bjez ad aprire le danze della pioggia, fedele e inaspettata compagna dei primi due giorni di frementi spettacoli. Mai così alto il numero degli abbonamenti, mai registrato così presto un sold out per il gran finale, mai il tutto esaurito al campeggio ufficiale. Sfortunatamente, mai visto neppure un simile temporale nelle precedenti sedici edizioni. Il meteo inclemente, infatti, costringe i romani Youarehere ad annullare la propria esibizione, in attesa di tempi migliori. Ma quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare: scampato il pericolo tropicale, per la gioia dei paganti, sono direttamente gli Efterklang a fare il loro ingresso sul palco di Piazza Castello. Capitanato dall’istrionico Casper Clausen nel ruolo di riuscitissimo Pigmalione, il terzetto danese, trasformato come di consueto in collettivo, regala ai presenti un’ora di pop artico e sapientemente articolato, attingendo principalmente dall’ultima fatica discografica: “Piramida”; non esattamente la loro uscita migliore. Tant’è che in mezzo alle pur gradevolissime Hollow Mountain, Sedna, The Ghost e Black Summer, non c’è ghiaccio che tenga innanzi alla splendida Step Aside: autentica punta di diamante per una prestazione comunque eccellente, primo tassello d’una serata memorabile.

Quand’è il turno degli Shout Out Louds, il cielo torna a farsi minacciosamente plumbeo, ma i nostri decidono sin dall’inizio di non cedere un millimetro. Il risultato è – se non il momento clou dell’intera tre-giorni – quantomeno la cartolina più memorabile, l’istantanea destinata a fissarsi nella memoria di ciascuno spettatore. Sotto un acquazzone incessante, la band di base a Stoccolma seduce anche i più scettici grazie ad una performance elettrica, scoppiettante, efficace. Adam Olenius è incontenibile, diverte e si diverte guidando i suoi lungo un tragitto ormai decennale: da Walls e Fall Hard sino a Walking In Your Footsteps, 14th Of July e Chasing The Sinking Sun, passando per le indimenticate Please Please Please e Impossible sino alla conclusiva Tonight I Have To Leave It. Non fossero state così impegnate a reggere provatissimi ombrelli e altri ingegnosi ripari di fortuna, le mani degli astanti avrebbero certo concesso applausi più scroscianti. Come biasimarle? Anche gli dei della pioggia, arresisi ormai all’orgogliosa testardaggine dei castelbuonesi (autoctoni e d’adozione), decidono che per stavolta può anche bastare così.

Dalla Scandinavia a New York, a questo punto, il passo non è mai stato così breve. Forti di un repertorio che in soli due album ha partorito un numero sbalorditivo di hit potenziali e non, The Drums giungono all’acme pop della rassegna, contaminando la piazza dei più brillanti echi 80s e 90s in materia. Niente di nuovo sotto il sole, per carità, ma la padronanza che brillantemente vantano i ragazzi di Brooklyn non può che far morire d’invidia cospicue schiere d’altisonanti colleghi. Se le leggi dell’hype non possono essere arginate, che siano brani come What You Were, Best Friend o Me And The Moon a colonizzare i lettori mp3 di tutto il mondo. I frizzanti refrain di Money o I Need Fun In My Life non fanno in tempo ad accarezzarti i timpani, che subito Forever And Ever, Amen e Let’s Go Surfing ti costringono a ceder loro un posto. Down By The Water, infine, è la ciliegina sulla torta della soirée che per compattezza, uniformità, qualità costante della proposta, guadagnerà al termine del festival la personalissima Palme D’Or de Il Cibicida. Avanti tutta.

10 AGOSTO

Quasi in preda a un’euforica smentita interna, il day 2 prosegue felicemente sulla falsariga del suo predecessore. Il chiostro della chiesa di San Francesco apre le porte all’Ypsi&Love Stage per la prima volta, rivelando in tal modo la più squisita novità dell’edizione annuale. Memori dell’insopportabile, brutale chiacchiericcio che pochi anni prima aveva quasi stroncato il magnifico solo di Josh T. Pearson, non si può che esultare al pensiero d’una location secondaria, accogliente oltre che sacra. Ma si sa: al bagliore di un’idea si è costretti a sottrarre il pantagruelico grigiore della cretineria; e così anche i buoni propositi, alle volte, sono forzati a venir meno. Dopo una convincente mezz’ora di blues rock messo disinvoltamente in scena dai Black Eyed Dog (molto più incisivi nella nuova veste trio, rispetto al passato), si presenta agli occhi dei curiosi Daniel Woolhouse, in arte Deptford Goth. Sistemati alcuni problemi tecnici che ne ritardano l’avvio, il live set può finalmente prendere forma assieme alle diafane suggestioni di “Life After Defo”. Le pregevolissime fattezze compositive dell’opera resistono persino al vergognoso baccano della platea (vedi nota in calce), evidentemente scocciata da un cantautorato sinusoidale che trova in pezzi quali Union, Feel Real o Bloody Lip un eccezionale ibrido minimal. “Perle ai porci”, azzarda un improvvisato ma veritiero Zygmunt Bauman de noantri. E si dirigono tutti, con la dovuta calma, nei pressi del main stage.

Ad attenderli, con scrupolosa puntualità, sono i redivivi Youarehere, la cui allettante Intelligent Dance Music (da segnalare il singolo Tape, promosso cum laude) fa da contraltare ai sicilianissimi Omosumo. Questi ultimi, sorta di supergruppo made in Palermo, propongono un folle meticcio danzereccio saturo di rimandi male assortiti, piuttosto debole e impacciato. Gli studenti s’impegnano – chiosavano di frequente i maestri elementari – ma i risultati sono quelli che sono. Il banchetto più ghiotto della giornata, assieme al sopracitato Deptford Goth, lo prepara a scanso di equivoci il pupillo di casa Tri Angle: Holy Other. Stroboscopie plastificate e flussi ovattati sposano lontani riverberi, in un’elegia 2step dall’irresistibile vena catartica. Held, Touch, (W)here, Feel Something: percorsi chillwave metropolitani ai quali è difficile porgere indifferenza, nel solco d’una prestazione coi fiocchi.

Ma il nome sul quale gravano maggiormente le aspettative odierne – e non solo – è fuor di dubbio quello dei Suuns. Il fervore col quale è stato accolto l’eccellente “Images Du Futur” (di matrice yorkiana) trova conferma nei minuti iniziali del concerto, che pur tuttavia risente, con grande rammarico, delle avversità metereologiche sempre in agguato. I canadesi devono inevitabilmente troncare l’esibizione: così, stavolta, l’incontestabile buona fattura di 2020, Minor Work, Edie’s Dream o della magnifica Powers Of Ten cede terreno al diluvio incombente, smorzando una prova ad ogni modo essenziale nell’economia della kermesse. Non si può dire lo stesso, ahinoi!, per quanto concerne la livida apparizione di Erol Alkan. Padreterno della consolle, primatista del remix, rende lontani gli analoghi giorni delle edizioni recenti come Itaca per Ulisse. Difficile reggere il paragone senza accusare qualche scricchiolante brusio scoliotico: raffrontare il dj londinese e Fuck Buttons, Junior Boys o The Field è d’altro canto un esercizio anaerobico da fuggire immediatamente, onde evitare sgradevoli deformità muscolari. Certe idiosincrasie accarezzano concupiscenti l’iconoclastia, e certa iconoclastia è la beneamata muraglia cinese dell’idiosincrasia. Se molti si scatenano sulle bordate insipide di Lemonade e Lack Of Love, parecchi decidono saggiamente di concedersi un bicchierino o un gelato alla manna, tipica di quelle zone. O di anticipare, colmi di suggestione per il grande appuntamento conclusivo, il rendez-vous col proprio giaciglio notturno.

11 AGOSTO

Le deliziose architetture electro-pop di UnePassante, ai quali spettano l’onore e l’onere di far da apripista a un parterre di stelle, tengono compagnia agli ancora chiassosi uditori dell’Ypsi&Love Stage per una trentina di minuti. Li segue a ruota Mr. Soren Lokke Juul, meglio noto come Indians: secondo nome di casa 4AD da Copenaghen, come gli amici Efterklang. A tal proposito, il trentatreenne dimostra con magistrale destrezza perché un’etichetta di tale prestigio abbia sollecitamente puntato su di lui sin dal vicinissimo esordio Somewhere Else. La liturgia à la Bon Iver di I Am Haunted, il delicato carillon di Magic Kids e la preziosa confidenza di Bird sono soltanto alcune tra le raffinate tessere poste a comporre un mosaico più che gradito. Well done; e ora di corsa in Piazza Castello.

Nella serata del febbricitante, spasmodico countdown per Editors e Local Natives, sono gli infuocatissimi Metz a mettere piede spavaldamente sullo stage principale, sprovvisti della propria attrezzatura andata smarrita in aeroporto. Alla faccia dell’impedimento. In poco più di mezz’ora, l’inossidabile scure dell’hardcore scende gloriosamente sul festival, risvegliando anche assopiti criticoni e sbadiglianti turisti occasionali. Il trio di Toronto carbonizza senza pietà la platea, mentre magmatiche e inesorabili affondano tracce come Headache, Wet Blanket, Negative Space e Knife In The Water. Nemmeno il tempo di rinverdire i fasti di sua maestà Sub Pop, che è già il momento di mettere la parola “fine” ad uno degli inconfutabili top di questa edizione, con un po’ di amarezza ed una punta di preoccupazione per quanto ha da venire. Rover, di fatti, risente suo malgrado il turnover nonostante l’elegantissimo rendimento. Stuck in the 70s, il suo songwriting regale e coriaceo riluce un po’ sornione di gemme dichiaratamente agées e di certa maniera. Ciononostante, pezzi di bravura quali Aqualast, Late Night Love, Champagne o Remember mantengono intatto dal vivo un certo appeal, che minimizza le perdite dovute al già menzionato avvicendamento. E non solo.

Il live di Timothee Regnier continuerà a crescere in proporzione grazie (si fa per dire) alla performance abbastanza incolore dei Local Natives. Reo d’un avvio gravemente sottotono e reduce da un album, “Hummingbird”, che ne ha messa inopinatamente a nudo la carente scrittura, il quintetto californiano cresce pian piano ma non convince del tutto. Pochi i guizzi ai quali si aggrappa lo show – il dittico Airplanes / Camera Talk, Colombia e Sun Hands su tutti – che riescono a fatica ad arginarne le falle, a dispetto della palese ammirazione circostante. Spetta agli Editors, giunti sin qui (chi altri sennò?), il compito non troppo arduo di avvicinare l’adrenalina iniziale; e l’obiettivo, con malcelato giubilo, viene più che episodicamente centrato. Sorretti da un’orda indefessa di adepti pronti a seguirli fino alle viscere dell’inferno, i figli d’un dio minore del revival wave garantiscono un’ora e mezzo di successi, portati in auge dal carismatico quanto brillante Tom Smith. Certo, nemmeno una simile occasione rende meno indigesti episodi del calibro di Sugar, Formaldehyde o Two Hearted Spider, ma ci si appiglia ferocemente alle sicure Munich, Smokers Outside The Hospital Doors, In This Light And On This Evening e An End Has A Start per scacciare i cattivi pensieri. Con la bellissima Papillon, concessa infine in una notevole extended version, si chiude l’encore cominciato sulle note di Bricks And Mortar, posto a congedo nei confronti d’un pubblico tanto eccitato da fare già pronostici sulla line-up del futuro 2014.

Parafrasando l’immenso Pippo Fava de “La Violenza” – con le parole che mette in bocca al Pubblico Ministero – è bene parlare meno di miracoli, e più di uomini. Il miracolo dell’agosto siculo risiede in un’organizzazione scrupolosa, una passione fuori dal comune, un rituale apotropaico che dal pomeriggio sino a notte inoltrata (non dimentichiamo, a tal proposito, gli after all’Ypsicamping a cura di Werto, HLMNSRA, Shirt vs T-Shirt) accompagna la propria gente lungo un inesauribile percorso a tema. Nella Sicilia del governatore queer e reazionario, delle risibili autonomie e inestinguibili antinomie,dei nuovi sindaci vecchi e delle primavere rattrappite, dei welcome party per turisti e dei “cervelli in fuga”, dei casinò come priorità e dei Teatri in agonia, delle demagogie a cinque stelle e del m(u)ostro a stelle e strisce, delle maschere – insomma – nude che più nude nemmeno Pirandello (pace all’anima sua!) poteva immaginarle, Ypsigrock è diventato un’eccellenza nazionale ed europea seguendo l’unica regola che al siciliano è sempre parsa inutile, nel gongolìo della sua carnascialesca spirtizia: fare le cose come si deve. Fino alla nausea si è blaterato d’un “modello Sicilia” da esportare su scala peninsulare. Se il modello in questione fosse un enorme calco di questa magnifica, irrinunciabile festa agostana, ci sarebbe di che andar fieri sopra una nave (quasi) destinata a sprofondare. O a villeggiare ancora – elefantiaco, riprovevole, intollerabile reliquiario – sulla costa d’un Giglio crisantemo d’Italia. Viva Ypsigrock!

NOTA: Uno dei grossi guai del liberismo è la convinzione becera che: se paghi, sei in diritto di fare un po’ quello che ti pare. Perché se la paghi quella cosa, è tua. Semplice. Può essere anche di mille altri, certo, ma tali quisquilie filosofico-morali mal si addicono, contesterà il fruitore, alla sostenibilissima leggerezza dell’acquisto. Inutile specificare, scomodando inesistenti educazioni all’ascolto, che nemmeno il rispetto per l’artista è d’obbligo; ci mancherebbe. Anzi. La colpa non è mia che parlo, urlo e scalpito: è tua che mi fai schifo, ben ti sta. Ebbene: cari signori e signore completamente disinteressati all’evento, l’ingresso al chiostro è sempre aperto, potete uscire quando e come v’aggrada. Breaking News. Pensateci bene la prossima volta. Pensateci ovunque vi troviate. Che magari qualcuno ha da dire qualcosa di meglio. Che magari la sta dicendo. Che magari qualcun altro gradisce. E che delle vostre dissertazioni sull’enigma del consenso nazionalsocialista di kershawiana memoria (siamo sicuri che si parlasse di quello, sicurissimi), possiamo fare anche a meno in quel momento. Grazie.

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