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Ypsigrock Festival 2016

Pochi festival come Ypsigrock oggi in Italia, forse nessuno. Lo si ripete ogni Agosto, correttamente, nella ferma intenzione di sottolineare un lavoro in costante crescita da vent’anni a questa parte. Non da tutti, non per tutti; certamente non in Sicilia. Fatta salva questa debita e concisa premessa, la sensazione è che l’appuntamento col rock a Castelbuono (PA), sulle Madonie, stia virando, con decisione, verso altri lidi non sempre affidabili. A cominciare dalla confezione (comunicazione, merchandise), l’edizione 2016 sancisce forse più delle precedenti uno slittamento su un target di giovani e giovanissimi (più i secondi dei primi), col risultato che un certo luccichio, alle volte, possa sembrare distante dall’effettiva pregevolezza dell’oro. Nato, come ogni esperienza di valore, all’insegna di una scommessa ambiziosa, Ypsigrock ne mantiene spirito, attinenza e coerenza. Nella scelta di precedere e non seguire altre kermesse di dimensioni maggiori, tuttavia, può capitare anche d’inciampare nel più comune degli errori: discernere cioè tra memorabile e fuggevole. Ne consegue, a questo giro di boa, una tre giorni di buoni concerti e valido assortimento; ma non molti, veri, incontestabili episodi di magnificenza.


DAY 1 – 5 AGOSTO


mudhoneyypsig2016

BIRTHH / 5 – Persi Il Cielo di Bagdad e Georgia, la nostra esperienza comincia nell’incantevole nuova venue dell’ex Chiesa del Crocifisso. Un’aggiunta certamente importante. Meno importante, purtroppo, è il battesimo. Il progetto di Alice Bisi è interessante e degno di nota – vista soprattutto la giovanissima età. Eppure manca d’identità in terra pirandelliana: un tandem complesso da amalgamare abilmente. All’insegna soprattutto di Daughter e James Blake, s’intravedono discreti schizzi preparatori. La strada è tutta, sgombra, davanti. Non resta che percorrerla.

FLAVIO GIURATO / 8 – Ci sono cose che noi italiani sappiamo fare bene. Ad esempio, eravamo cantautori. Prima di cedere alle lusinghe del mondo. “La Scomparsa di Majorana” è una delle migliori cose accadute alla musica nostrana, perché ha consegnato ad almeno due generazioni d’ignari un tesoro nazionale. Nella penombra del Museo Civico di Castelbuono (a proposito: avete visto la mostra dei gemelli Carlo e Fabio Ingrassia? No? Avreste dovuto), si consuma il breve miracolo di un gigante: Centocelle, Marco e Monica, La scomparsa di Majorana, Il tuffatore. Per rinascere, ogni volta, dall’acqua all’aria.

OSCAR / 6 – Coniamo un termine, per la gioia di Nanni Moretti. Il nome è quasi – attenzione – “ingooglabile”. A parte questo, Oscar Scheller fa ciò che deve col suo godibilissimo psych-brit-pop dai colori estivi (come l’improbabile completo indossato). Certo, si tratta un po’ – come recita il titolo stesso dell’album d’esordio – di un “Cut And Paste”, seppur ben armeggiato. Vero è, citando Woody Allen, che a qualcuno bisogna pur ispirarsi. Anche qui: moderata fiducia all’anagrafe con vista sul futuro.

THE VRYLL SOCIETY / 5,5 – Simpatici sconosciuti da Liverpool: città che ha dato i natali a un paio di band giusto un pelo decenti. Perfettamente riconoscibile la provenienza, in linea col precedente opening act. Loro ricorderanno sicuramente la bellezza di una piazza ormai semi gremita. Chissà se la piazza, di qui a un decennio, si ricorderà invece di loro.

MUDHONEY / 8 – Punto di non ritorno del festival tutto. Bastano cinque minuti a Mark Arm e soci: l’uno-due Fuzz Gun ’91/Suck You Dry. Ed è subito vera, goduria vera. Pochi fronzoli, tanto mestiere: la differenza fra chi si agita e chi invece suona, semplicemente, su un palco è una cosa palpabile oltre che udibile. In pochi si trattengono su You Got It o Touch Me I’m Sick. Francamente, non vogliamo sapere il perché. Restano fischi piacevolissimi nelle orecchie, e quella cover di Editions Of You nelle viscere. Maestri, questi ragazzi di Seattle, in mezzo a una serie di semplici apprendisti.

THE VACCINES / 5,5 – Fanno il loro ingresso sull’o.s.t. di “Game Of Thrones”. A conti fatti, l’unica nota di epicità del live. Hanno all’attivo un buon album omonimo e due oggetti abbastanza rivedibili. Riescono a rovinare, tutto sommato, anche bei pezzi come All In White. Scendono solo di mezzo punto sotto la sufficienza per clemenza della corte: era un suicidio chiudere la serata. Passata una Lamborghini poco prima, la band londinese non può che sembrare una Fiat.


DAY 2 – 6 AGOSTO


FEDERICO ALBANESE / 7 – Le condizioni metereologiche avverse fanno slittare gli appuntamenti con YOMBE e Loyle Carner. Ci si consola, un pelo più riposati, col bravo compositore italo-tedesco (miglior utilizzo del Mr. Y Stage, inaugurato coi sopra citati Birthh). Albanese raccoglie garbatamente la tradizione modern classical da Einaudi a Nils Frahm, mettendo insieme il puzzle con misura ed equilibrio. Un’ora piena di feritoie e lucciole da “The Houseboat And The Moon” e “The Blue Hour”, condita dall’entusiasmo d’un parterre non avvezzo a concerti per piano solo. Formula da ribadire.

LOYLE CARNER / 6,5 – Sembra saltato fuori dalla gloriosa East Coast. In realtà è saltato fuori, al massimo, dall’Unione Europea – dopo i risultati di un recente referendum. Giovanissimo rapper old school, Carner mette pepe sul cacio del pomeriggio, condendo una pasta di primo acchito gustosa. Bene i singoli, benissimo Ain’t Nothing Changed.

NIAGARA / 6 – I torinesi gestiscono la situazione con verve e possesso dei mezzi tecnici. Scaldano bene la dancefloor per i sequel a venire. Buona, per carità, la resa dal vivo. Inalterabile quel déjà vu che rubino, anche loro, abbastanza smodatamente.

GRANDBROTHERS / 6 – Chiamato a sostituire i dimissionari Kiasmos, il duo tedesco prova a muoversi tra l’incudine e il martello con un sound decisamente più adatto a scenari maggiormente contenuti. Per essere una toppa dell’ultimo minuto, va persino oltre le aspettative suscitando legittima curiosità – magari in habitat più conformi.

LUH / 6,5 – Il vero casus belli sono gli ingl-olandesi Lost Under Heaven, nuovissimo progetto del frontman dei WU LYF. Osannati o detestati, gli si deve riconoscere una certa dose di coraggio e singolarità – caratteristica smarrita da quasi tutti i colleghi presenti. Una sorta di popcore ancora in erba, sorretto principalmente dal timbro di Ellery Roberts. Soltanto i posteri sentenzieranno: meteore, pure loro? Nel frattempo, bene brani come I&I.

CRYSTAL CASTLES / 5 – Provano a mascherare, con volumi molto alti, un repertorio dal valore altalenante. Problemi tecnici di varia natura compromettono ulteriormente le condizioni già precarie. Quasi immorale il confronto con Moderat o Fuck Buttons, dalle precedenti edizioni. Tantissimo fumo, pochissimo arrosto.


DAY 3 – 7 AGOSTO


GIANT SAND / 7,5 – Certi che Howe Gelb solcherà ancora il suolo italico, non lo faranno più questi Giant Sand in forma smagliante. Che gran peccato; ma che bel commiato. La musica dovrebbe sempre riuscire a portarti nel luogo da cui proviene, senza il bisogno di esserci mai stati. Così fanno pezzoni come Tumble And Tear o la conclusiva, bellissima Shiver. Dalla provincia di Palermo a Tucson, Arizona: il passo non è mai stato così breve.

LIM / 6 – Ci fermiamo a parlare coi Giant Sand e perdiamo, dopo una lunga fila, i compaesani YOMBE. Fortunatamente, facciamo in tempo per Sofia Gallotti e il suo trip hop saturo d’approdi su diverse orbite -troniche. Come giustamente sottolinea anche lei: bellissimi i visual, non di poco impatto sulla resa generale.

WILLIS EARL BEAL / 6,5 – È sempre bene avere uno come lui nella line-up. Arriva, fa sedere tutti per terra, canta, intima l’acquisto del suo album perché «I need Burger King and I need money for that». Peccato mandi le basi in play con l’iPod. Voce e carisma ci sono in abbondanza.

MINOR VICTORIES / 7 – Prima italiana per il supergruppo capitanato da Rachel Goswell. Prestazione in costante, grandissima ascesa. Splendide Breaking My Light, A Hundred Ropes e Scattered Ashes, scheletro non a caso dell’omonimo album. Perfetta l’intesa con i fratelli Lockey e Stuart Braithwaite. Gente che sa come si sta al mondo. E si vede, si sente: c’è poco – veramente – da fare.

SAVAGES / 7.5 – Suonano come padr – ops! – madreterne e fanno una grande impressione on stage. Al momento, con le sempre vive Sleater-Kinney, tra i più potenti gruppi al femminile in circolazione. Avranno forse qualche lacuna compositiva, ma non c’è scusa che regga la stasi con l’incedere di Husbands, The Answer, T.I.W.Y.G. o Hit Me. Stando all’offerta seguente, avrebbero potuto e dovuto serrare l’evento.

DAUGHTER / 6 – Inadatti, per suono e caratteristiche, a fare le veci del punto esclamativo. Avrebbero dato probabilmente il massimo da maiuscola, dopo il punto, magari tra le mura del bellissimo Chiostro di San Francesco. Soffrono la dote lasciata dalle Selvagge. Permane distinta, in ogni evenienza, la sensazione d’un hype che fatica a infettare chi è davvero cresciuto con 4AD e Sarah Records. Belle, ci mancherebbe, How, Tomorrow, Youth. Ma una rosa è una rosa è una rosa. Non una quercia, non un ulivo.

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