[adinserter block="3"]
Home MONOGRAFIE Pink Floyd

Pink Floyd

C’è una data precisa di nascita dei Pink Floyd, è il 1965. Ma in realtà la band inglese ha avuto almeno tre genesi ben distinte segnate da tre diverse leadership. La prima, appunto dal 1965, rappresentò l’Era Barrett per via di Syd, il leader lunatico e geniale. Insieme a lui Roger Waters, più accigliato e tecnico, Richard Wright e Nick Mason, tutti di stanza a Cambridge, ma tutti compagni di scuola al Politecnico di Architettura di Londra. Sono gli anni della psichedelia, dei light show, dell’LSD. Gli anni del rock liquido. Poi Syd esagera con gli acidi e finisce fuori dal gruppo. È il 1968. Inizia l’Era Waters, con Roger che prende per mano la band e la conduce verso i grandi capolavori degli anni ’70 (“The Dark Side Of The Moon”, “The Wall”). I Pink Floyd calibrano il suono, s’avvicinano al rock concettuale e iniziano a sperimentare come nessun altro in quel periodo. A sostituire Syd è arrivato David Gilmour, uno che con la chitarra sa arrivare ovunque e che, quando Waters decide di mollare tutto, sarà l’ultimo leader dell’ultima Era. Un periodo che inizia nel 1985. La band è spaccata, Waters fa causa (perdendola) per tenersi il marchio Pink Floyd. È un momento complicato. Gilmour con il solo Mason (e poi successivamente anche con Wright) conduce il gruppo agli ultimi respiri della sua spettacolare storia, chiusasi nel peggiore dei modi.

 

THE PIPER AT THE GATES OF DAWN (1967)

Il titolo è quello di un libro per bambini, l’album è inafferrabile, un pot-pourri di immagini, allucinazioni e ossessioni di Syd Barrett a metà tra i ricordi infantili e le ambizioni spaziali degli anni ’60. Ed ecco che nasce il rock psichedelico: canzoni dalla struttura liquida, libera, morbosa, perfette per essere mandate in scena durante i light show: concerti in cui l’ingestione di LSD non era solo una possibile variante ma condizione necessaria di spettacoli ai limiti della legalità. Ed ecco che “Interstellar Overdrive” parte per lo spazio e non riscende più, proprio come Syd Barrett che, dopo quel disco, non torna più se stesso. Volete sapere di più? Andate su Google e digitate “Incidente Mandrax”.

Brano consigliato: Astronomy Domine – In breve: 4,5/5

 

A SAURCEFUL OF SECRETS (1968)

È passato solo un anno nella vita dei Floyd, ma è cambiato tutto. Ora sono una band popolare e richiestissima. Nel frattempo, però, Barrett è il fantasma di se stesso, giorno e notte allucinato dalle droghe. Proprio per questo entra in campo David Gilmour in una formazione che diventa a cinque. Il disco prosegue sulla scia dell’esordio, estremizzandone qualche concetto. Vedi la title track di oltre 11 minuti e vedi un impianto musicale più ricercato, ma non per questo meno anarchico. In “Corporal Cregg” Waters inaugura il tema politico e poi c’è “Jugband Blues”, il vero testamento artistico di Barrett che chiude qui l’esperienza con i Pink Floyd.

Brano consigliato: Remember A Day – In breve: 3,5/5

 

UMMAGUMMA (1969)

Uno dei primi “doppi” della storia del rock, il disco presenta un primo lato di esibizioni live dei successi dei due primi dischi e un secondo con inediti segnati da una particolare scelta: ognuno dei componenti si esalta in un pezzo scritto di proprio pugno e condotto da par suo. E allora ecco la musica classica in “Sysyphus” di Wright, le sperimentali “Grantchester Meadows” e “Several Species” di Roger Waters, gli assolo di chitarra di Gilmour in “The Narrow Way” e le rullate impazzite di Mason in “The Grand Vizier’s Garden Party”. Un disco strano di una band ormai senza briglie.

Brano consigliato: Set The Control Of The Heart Of The Sun (live) – In breve: 3/5

 

ATOM HEART MOTHER (1970)

Nel 1970 una signora incinta è mantenuta in vita grazie a uno stimolatore di battiti cardiaci atomico; questa storia ispira il quarto album dei Pink Floyd. Ancora una volta il deus ex machina è Roger Waters, che qui asseconda il suo gusto per la musica classica componendo un lavoro diviso in diverse parti con una cornice di cinque brani. Il suono dei Floyd si arricchisce di archi, ottoni, tastiere e si fa sempre più schizofrenico: momenti di intimità e momenti di laboratorio puro sulla musica, vedi il rumorismo che riproduce una normale colazione inglese in “Alan’s Psychedelic Breakfast”. L’avanguardia è ora.

Brano consigliato: If – In breve: 4/5

 

MEDDLE (1971)

Se i precedenti lavori seguivano una traccia concettuale o una cornice strutturale, questo è un disco di singoli, per nulla legati tra loro e ognuno con una sua personalità. Per molti è il disco “della sigla di Dribbling” (celebre trasmissione calcistica della RAI) per via dell’aggressiva e chitarristica “One Of These Days” che ne musicava la sigla, ma dentro ci si trovano tante altre cose: pop, blues, rock acido, ballate e persino il coro della curva del Liverpool che chiude “Fearless”.

Brano consigliato: Echoes – In breve: 3/5

 

OBSCURED BY CLOUDS (1972)

Agli inizi del 1972 il regista Barbet Schroeder si mette in contatto con Waters per proporre ai Pink Floyd di musicare il suo ultimo film “Le Valee”. La sinergia ci sarà ma si rivelerà un fallimento sia dal punto di vista cinematografico che da quello discografico. L’album che ne viene fuori occupa infatti uno dei punti più bassi della carriera floydiana. Registrato fra le rovine di un monastero francese, il disco è stanco e privo di personalità, forse il ritmo incessante di un LP all’anno inizia a farsi sentire.

Brano consigliato: Stay – In breve: 1,5/5

 

THE DARK SIDE OF THE MOON (1973)

Il rumore e il suono. Waters telefona ad Alan Parsons con un taccuino zeppo di appunti. Quello a cui pensa è un disco in cui i rumori non siano più simulati come in passato, ma originali e riversati dentro alle canzoni. E allora ticchettii di orologio, tintinnii di monete e il rombo di un aeroplano piombano in studio all’interno di uno dei più importanti concept album della storia. Perché per parlare dell’uomo e del suo lato oscuro, c’è bisogno di fare i conti con tutto ciò che lo circonda. La bramosia per il denaro (“Money”), la foga del tempo (“Time”), l’incomunicabilità (“Us And Them”), così, non sono solo sentimenti intangibili, ma veri totem. E poi c’è la morte, personificata dal canto-gospel celestiale di Claire Torry in “The Great Gig In The Sky” e che conduce il disco paradossalmente all’immortalità. L’album rimarrà in classifica per quattordici anni, ma soprattutto il prisma penetrato da un fascio di luce poi scomposta nei colori dell’arcobaleno, cover realizzata dal fedele duo grafico degli Hipgnosis, entrerà nelle case di tutto il mondo per oltre cinquanta milioni di volte.

Brano consigliato: Speake To Me / Breathe – In breve: 5/5

 

WISH YOU WERE HERE (1975)

L’ondata impressionante del successo di “The Dark Side Of The Moon” investe i Pink Floyd, che rimangono frastornati da tutta quella popolarità. All’inizio del ’74 la necessità, dunque, è quella di ricercare una serenità perduta, quindi spazio alla malinconia e ai ricordi degli amici perduti (Syd Barrett). Proprio dedicata all’ex leader è la splendida “Shine On You Crazy Diamond”, percorso di oltre 20 minuti in cui la chitarra di Gilmour riesce a essere commovente e solenne allo stesso tempo. La canzone, forse la più intensa mai scritta dalla band, va ad aprire e chiudere un disco epocale ma di transizione. Durante le registrazioni, poi, la sorpresa. A sette anni dall’ultima volta, Barrett fa visita ai suoi amici in studio. È irriconoscibile: grasso, calvo e confuso.

Brano consigliato: Wish You Were Here – In breve: 5/5

 

ANIMALS (1977)

Nel 1977 in Inghilterra impazza il fenomeno punk. Ci sono i Sex Pistols che girano per Londra con la t-shirt “I hate Pink Floyd” e i gusti musicali della gente subiscono uno strattone. Waters, incalzato dall’urgenza del momento, accende i toni delle sue liriche. Ecco un album ispirato, come suggerisce il titolo, alle visioni satiro-politiche del George Orwell di “Animal Farm”. Il lavoro non si distingue tanto per grandi meriti artistici quanto per il definitivo “golpe” di Roger, che trasforma i Pink Floyd nella sua personalissima valvola di sfogo.

Brano consigliato: Dogs – In breve: 4/5

 

THE WALL (1979)

Un estenuante tour mondiale, la pressione di giornali e media, qualche screzio con pubblico e compagni, portano Waters a chiudersi in un mutismo e dietro a un muro che lo separa con l’esterno. È in questo periodo che pensa, scrive e realizza “The Wall”. La copertina dell’album è emblematica: un muro di mattoni bianchi, e la canzone simbolo “Another Brick In The Wall” lo è ancora di più: la repressione, l’angoscia, la coercizione della dittatura, rendono l’uomo incontrollabile. Doppio album, poi diventato un film per la regia di Alan Parker e l’interpretazione di Bob Geldof, è forse la più grande opera rock di tutti i tempi. Opera che nei live pirotecnici trovò la massima e definitiva espressione.

Brano consigliato: Confortably Numb – In breve: 5/5

 

THE FINAL CUT (1983)

Non rimane molto dei vecchi Floyd dopo il successo epocale di “The Wall”. Resta solo Waters. Non più una band, dunque, ma il sogno artistico totalizzante di un unico interprete. È in questo periodo che Wright lascia la band e che Roger decide di pescare qualche pezzo scartato dalle registrazioni del Muro per celebrare il suo strappo finale. Questo è un album decadente e sulla decadenza. Un disco pieno di livore e insoddisfazione. C’è la guerra e c’è il ricordo del padre morto in battaglia. I brani si trascinano stanchi e arrabbiati e la creatività del passato lascia il posto al disordine.

Brano consigliato: The Fletcher Memorial Home – In breve: 3/5

 

A MOMENTARY LAPSE OF REASON (1987)

Quando Waters decide di andarsene e di portare con sé il marchio Pink Floyd scoppia una lunga causa legale, poi vinta dal duo Gilmour-Mason. Nel 1987 David deve quindi dimostrare che i Pink Floyd possono esistere anche senza Roger Waters. Così, insieme a Mason (ma senza Wright), nella sala d’incisione ricavata all’interno di un’imbarcazione sul Tamigi, resuscita il gruppo con il primo album della terza era floydiana. Il disco è mediocre e poco fortunato, molti fan, infatti, preferiscono acquistare “Radio K.A.O.S.”, l’esordio solista di Waters sempre del 1987.

Brano consigliato: Learning To Fly – In breve: 1,5/5

 

THE DIVISION BELL (1994)

Stavolta nei credits compare pure il nome di Wright come terzo Pink Floyd, ed è proprio nel segno del tastierista che si sviluppano le due strumentali “Cluster One” e “Marooned”. Il disco è melanconico ed eccessivamente arreso: le vicende coniugali di Gilmour, il ricordo delle liti furibonde con Waters, il pensiero che vola verso l’amico Barrett e il tempo che scappa via, hanno il suono delle “campane della separazione” e della maturità. Le chitarre di David sanno essere lunghe e profonde come sempre, ma il mistero, quello antico dei Pink Floyd, quello è sparito forse per sempre.

Brano consigliato: High Hopes – In breve: 2,5/5

 

THE ENDLESS RIVER (2014)

A distanza di vent’anni da “The Division Bell”, con Richard Wright venuto a mancare nel 2008, Gilmour e Mason rispolverano il marchio della band per un album che raccoglie l’ultimissimo materiale inedito inciso dai tre. Si tratta più che altro di spunti strumentali che avrebbero necessitato ulteriore lavoro di levigatura se le cose non fossero andate come sono andate, ma tant’è, il sound dei Pink Floyd di Gilmour si sente forte ma sembra di essere al cospetto di un lunghissimo dejà vu in cui vengono fuori, sparsi qua e là, echi di un passato glorioso. *

Brano consigliato: Louder Than Words – In breve: 2,5/5

 

* Contributo di Emanuele Brunetto

Nessun commento

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Exit mobile version