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Afterhours – Folfiri o Folfox

folfiriofolfoxSono diversi i colori che l’esistenza, a volte soltanto per assecondare i capricci di una spietata casualità, può riservare ai suoi passanti. Il nero luttuoso di una perdita. Il blu di un antico giovane amore condannato all’oblio dei ricordi da dimenticare. Il vermiglio che cola dalle fauci affamate di una malattia anarchica senza volto. Il celeste delle preghiere lanciate in cielo, anche di quelle più lontane da Dio. Il giada delle elemosine concesse dal tempo. Il cremisi della superstizione più selvaggia. Il giallo invadente della dipendenza. L’ardesia di un dolore stremato che sbraita propositi di diserzione presto repressi. E poi il bianco degli spazi lasciati vuoti, come nei grandi fogli di carta che i bambini utilizzano per i loro disegni, dalle cui fessure penetra, quasi fosse un’ombra gentile, un fiato di speranza luccicante che sa di rinascita. Una chiazza variopinta da adagiare sul petto, a pochi centimetri di carne dal cuore, che solo la sincerità di uno specchio su cui riflettersi saprà raccontare.

Commuove e fa pensare il nuovo doppio album degli Afterhours, Folfiri o FolfoxQuello realizzato dalla band meneghina – oggi rinnovata dall’ingresso in pianta stabile del batterista Fabio Rondanini (Calibro 35) e del chitarrista Stefano Pilia (Massimo Volume) in sostituzione, rispettivamente, dei dimissionari Giorgio Prette e Giorgio Ciccarelli – è un lavoro difficile, duro, compatto, scomodo, struggente, straordinariamente vero. La sua architettura rimanda, per metodologie d’approccio e profondità di analisi, a due delle opere più importanti che la storia del rock abbia mai conosciuto: il gigantesco “The Wall” dei Pink Floyd, dal quale i nostri sembrano aver ereditato quel prezioso lasciapassare che ha permesso alla ditta Waters-Gilmour-Mason-Wright di accedere alle aree più nascoste della coscienza, ed il memorabile “The Fragile” dei Nine Inch Nails, le cui dissolvenze emotive riecheggiano, seppur con una diversa cifra stilistica, lungo le magnifiche liriche firmate da Manuel Agnelli.

L’azione narrativa plasmata intorno ad un’idea concettuale di partenza (di cui il titolo prescelto, “Folfiri o Folfox”esplicito riferimento a due noti trattamenti chemioterapeutici, rappresenta la migliore sintesi) si snoda attraverso un labirinto di interconnessioni e sovrapposizioni. Sono canzoni che comunicano tra loro, che vivono l’una nell’altra (basti pensare, ad esempio, al trittico GrandeL’odore della giacca di mio padre / Oggi o agli episodi strumentali Cetuximab Ophryx o, ancora, alle litanie laiche Ti cambia il sapore Né pani né pesci), che accompagnano, e non solo metaforicamente, il percorso dei protagonisti di questo romanzo sonoro nonché degli altri personaggi che lo affollano (come accade in Il mio popolo si fa Fra i non viventi vivremo noi). Agnelli canta di ciò che la morte addormenta e di quello che la vita può risvegliare. Lo fa senza risparmiarsi, facendo a meno delle distanze precauzionali e lasciandosi travolgere da quel fiume di dilemmi in piena che scorre nelle le vene della verità, non prima, però, di aver urlato il suo sofferto grido di sfida. E neppure questa volta Agnelli trema.

Il sound è quello inconfondibile degli Afterhours: libero, sicuro e, soprattutto, svincolato da qualsivoglia logica radio friendly (e va detto che sono poche la band in Europa a potersi permettere un simile lusso). Un timbro magniloquente sapientemente tarato sulle chitarre arrabbiate di Xabier Iriondo, i melodici giri di basso di Roberto Dell’Era e le scale cromatiche del violino di Rodrigo D’Erasmo, ed impreziosito dalla voce di Agnelli che, album dopo album, raggiunge vette sempre più alte. Completano il quadro – oltre ad evidenziare anche lo straordinario apporto fornito dai due nuovi componenti prima citati – una serie di elaborate quanto riuscite reminiscenze che spaziano dalla tecnica degli Swans (San Miguel) alla poetica di Fabrizio De André (Il trucco non c’è), dalla sontuosità degli Hüsker Dü (Fa male solo la prima volta) alla dolcezza amara di Ivan Graziani (Non voglio ritrovare il tuo nome).

A conclusione della diciottesima traccia del disco, Se fossi il giudice, la metamorfosi dell’ascoltatore è ultimata: da intruso ad ospite, da ospite a testimone. La sensazione è quella di trovarsi a rovistare dentro quei cassetti, volutamente chiusi a metà, descritti da Agnelli in “Ritorno a casa” (da “Quello che non c’è”2002), fra le polaroid seppellite dalle carcasse rosa dei soldatini britannici. Memorie di ieri destinate ad un più tardi indefinito. E nell’attesa che il perché di tante cose venga svelato, anche di quelle all’apparenza semplici e banali, non resta che vivere o, quantomeno, provare a farlo.

Da ascoltare insieme, qualunque cosa ciò possa significare.

(2016, Universal)

DISCO 1
01 Grande
02 Il mio popolo si fa
03 L’odore della giacca di mio padre
04 Non voglio ritrovare il tuo nome
05 Ti cambia il sapore
06 San Miguel
07 Qualche tipo di grandezza
08 Cetuximab
09 Lasciati ingannare (Una volta ancora)

DISCO 2
01 Oggi
02 Folfiri o Folfox
03 Fa male solo la prima volta
04 Noi non faremo niente
05 Né pani né pesci
06 Ophryx
07 Fra i non viventi vivremo noi
08 Il trucco non c’è
09 Se io fossi il giudice

IN BREVE: 5/5

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