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Afterhours – Padania

“La verità è che Po è un sacramento di fiume incostante e capriccioso. Nasce dal Monviso, da un antro che pare giusto la matrice d’un animale mostruoso; arriva a Saluzzo e prende bruscamente a salire verso Torino: qui aggira nuove colline e riceve le Dore, mettendosi a correre sbadato da un sabbione all’altro. Diventa un po’ più rispettabile ricevendo il Ticino, la cui parte cerulea si distingue dal resto per una buona ventina di chilometri. Adesso ci puoi crepare di tifo e di epatite virale: ai miei tempi si beveva acqua di Po dalla sèssola, che i toscani chiamano votàzzolo nel loro fossile e noioso dialetto” (Gianni Brera, “Storie dei Lombardi”).

Chissà quanti sogni avrà visto cadere, come pupazzi al sole, il campo di neve fradicia cantato da Manuel Agnelli in Padania e, avvedutamente, immortalato in copertina, quasi fosse il fotogramma iniziale di un film senza interprete alcuno. Muto, ma al contempo chiassoso, come l’accendino in sottofondo, che tossisce a fatica il suo fuoco. Un brano – quello che presta il nome all’intera opera – dietro cui si nasconde, più che una sigla banalmente equivocabile, l’egemonia di uno stato mentale. Una dittatura invisibile, nervosa, che, ad intervalli regolari, alterna il al noi, e viceversa. Giunti a questo punto della loro carriera, gli Afterhours godono di quella sorta di stato di grazia che è proprio solo dei grandi, cui non viene mai richiesta – tali sono la levatura artistica ed il profilo poetico dei soggetti coinvolti – una rappresentazione meramente dimostrativa di forza, checché ne dica chi, nascosto dalle trame della rete, è solito sostenere che “esistere è impressionare”. Eppure, nonostante ciò, è successo di nuovo. Ecco, infatti, un disco nuovo di zecca che rifugge in modo incondizionato da soluzioni di comodo, cliché e logiche compilative. E’ l’essenza stessa del sound della band milanese ad essere presa di petto, spogliata da qualsivoglia ornamento o fregio: ossa avviluppate da pelle, sbalordite dinnanzi ad uno specchio ossidato che riflette secondo le declinazioni del tempo. D’altronde, si sa, elemento peculiare del repertorio Afterhours è il suo essere ineluttabilmente intersecato, a prescindere dal lavoro da cui la traccia è tratta. E così Padania diventa un’occasione più unica che rara per fare i conti con quanto è già stato o, più semplicemente, passato da qui (lì): la stasi di “Germi”; gli architetti di “1.9.9.6.”; la religione di “Tutto fa un po’ male”; l’assassino di “Televisione”; l’alba di “Quello che non c’è”; l’amore di “Ci sono molti modi”; i mostri di “Orchi e streghe sono soli”. Ciascuno recita, alla perfezione, il proprio ruolo. Brano dopo brano, le corde vocali di Agnelli diventano sempre più un tutt’uno con l’inchiostro che graffia le pagine del suo taccuino. Dopo la straordinaria prova di “Adesso è facile”, che lo ha visto duettare con sua maestà Mina, il Manuel nazionale raggiunge, senza il benché minimo sforzo, le tonalità di Battisti (Terra di nessuno), Waits (Io so chi sono) e Reitano (Giù nei tuoi occhi), tanto per fare qualche nome, sfoderando una personalità canora impressionante, ipnotica, viva. Altrettanto gigantesco è l’apporto del resto dei componenti della line up. La locomotiva Afterhours viaggia su binari solidi e sicuri, forgiati dalle bacchette e le spazzole di Giorgio Prette (Fosforo e blu), puntuale come sempre nello scandire ogni singolo istante sonoro, e modellati dalle geometrie anarchiche delle chitarre di Giorgio Ciccarelli (Spreca una vita). E che dire poi della premiata ditta Dell’Era e D’Erasmo? Il primo, con le sue quattro corde, è in grado di regalare a ciascuna strofa una chiave interpretativa ulteriore, ovverosia un colore che va ben oltre il naturale contorno (Messaggio promozionale n. 1). Il secondo, invece, mescola istrionismo ad eleganza, un equilibrio perfetto che nella barberiana Iceberg sfiora il sublime. Discorso a parte va fatto per l’ottimo Xabier Iriondo. Il suo è un ritorno più che gradito, come testimonia la toccante accoglienza riservatagli dai suoi compagni di classe, vecchi e nuovi. Eccolo là, a cavalcioni su quel banco che, neppure per un attimo, ha mai smesso di essere il suo, mentre è intento ad affondare l’ennesimo assalto sonoro (La tempesta è in arrivo). Gli Afterhours raccontano il paese, quello reale del Teatro Valle di Roma o del Teatro Coppola di Catania, per intenderci, o, ancora, della mediocritas della corte anderseniana di Costruire per distruggere, senza compromessi e/o giri di parole. Il risultato è un album dipinto lungo quindici capitoli, di cui almeno cinque destinati all’indelebile memoria: la title track “Padania”, Nostro anche se ci fa male, La terra promessa si scioglie di colpo e le già citate “Costruire per distruggere” e “Giù nei tuoi occhi”, dove Agnelli e soci sfornano uno dei ritornelli più azzeccati degli ultimi cinque anni. Roba da fare impallidire i Devo, e non si sta esagerando. Mai così vicini, mai così lontani.

(2012, Germi)

01 Metamorfosi
02 Terra di nessuno
03 La tempesta è in arrivo
04 Costruire per distruggere
05 Fosforo e blu
06 Padania
07 Ci sarà una bella luce
08 Messaggio promozionale n. 1
09 Spreca una vita
10 Nostro anche se ci fa male
11 Giù nei tuoi occhi
12 Messaggio promozionale n. 2
13 Io so chi sono
14 Iceberg
15 La terra promessa si scioglie di colpo

A cura di Vittorio Bertone

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