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Baroness – Blu Record

Attendevamo con trepidazione al varco i Baroness dopo quell’entusiasmante esordio su lunga distanza che li ha consacrati band di punta del nuovo rock duro statunitense, quel “Red Album” che spiccò – con merito – negli indici di gradimento di critica e pubblico nel 2007. Il four-piece di Savannah, Georgia, guidato da John Baizley (che è anche grafico affermato nell’ambiente metal-core, nonché il creatore della splendida copertina del disco) non ha perso la carica adrenalinica che lo ha contraddistinto, e col tempo la materia grezza ed irruenta è andata raffinandosi con un approccio stilistico più maturo ed aperto alle contaminazioni. Le striature acide della psichedelia si intravedono nel flusso più squisitamente hard-rock, dove viene ad affluire quell’enorme fiume scaturito dalla convergenza del post-core, dello stoner e dello sludge. I Baroness fanno parte della nuova tradizione che vede i Mastodon capostipite di un sound che fonde vecchio e nuovo e che ha nei Kylesa dei validissimi apostoli. Blue Record segue per filo e per segno la strada tracciata da “Red Album”, sviluppandone i punti di forza come le melodie epiche in alcuni segmenti strumentali. Se in formazione ci fosse un cantante più estroso e duttile di Baizley la band potrebbe compiere passi da gigante: non possiamo esimerci dal muovergli certe critiche, come l’ostinarsi a riprodurre per quasi tutto il disco le stesse due linee vocali che, ben inteso, nel contesto si sposano alla perfezione, ma che non di rado danno l’impressione di déjà-vu. Questa è l’unica pecca che abbiamo rilevato in un disco che solo per poco non bissa l’elevata qualità del suo predecessore. Ruspante è Jake Leg, figlia illegittima di uno sludge-core che intrattiene rapporti di non poi così lontana parentela col punk. Ha lo stesso approccio Swollen And Halo, di cui Steel That Sleeps The Eye è l’intro. Le canzoni hanno la complessità tipica degli sviluppi progressive, concedendo libertà di costruzione e aperture a rielaborazioni del tema principale, senza però mai giungere a digressioni che ledano l’identità del brano. Sono numerosi i passaggi che attirano l’attenzione, non solo da un punto di vista tecnico ma anche e soprattutto da quello melodico. E’ con A Horse Called Golgotha che i Baroness pagano il loro tributo ai Mastodon (l’assolo rimarca quello della recente “Oblivion”, l’arpeggio seguente su dissonante ragnatela non ha altro etimo che nella band di Atlanta), ma tenendo ben presente la lezione impartita dai Grand Funk Railroad. Non ci sono sostanziali cali per tutta la tracklist, fino in fondo i Baroness affermano il proprio verbo con convinzione. War, Wisdom And Rhyme strizza l’occhio persino ai Today Is The Day, Blackpowder Orchard incrocia il country con le armonizzazioni dei Metallica (elemento rintracciabile anche in Bullhead’s PsalmBullhead’s Lament) ed è soltanto un secondario intermezzo. Lavoro avvincente e che cresce ascolto dopo ascolto, questo secondo cesello evidenzia la classe di un gruppo di prima fascia della scena hard-stoner-core. I Baroness sono una band con cui bisogna necessariamente fare i conti, oggi ne abbiamo la conferma.

(2009, Relapse)

01 Bullhead’s Psalm
02 The Sweetest Course
03 Jake Leg
04 Steel That Sleeps The Eye
05 Swollen And Halo
06 Ogeechee Hymnal
07 A Horse Called Golgotha
08 O’er Hell And Hide
09 War, Wisdom And Rhyme
10 Blackpowder Orchard
11 The Gnashing
12 Bullhead’s Lament

A cura di Marco Giarratana

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