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Blackfield – Welcome To My DNA

Questo Welcome To My DNA è un’altalena. Da una parte presenta un bouquet di canzoni di buona fattura ma arrangiate con molto mestiere. D’altro canto non mancano buchi nell’acqua e depressione imbottita di steroidi e cotta a puntino. Ma procediamo con ordine. Steven Wilson e Aviv Geffen, quattro anni dopo di nuovo insieme. Tra il 2005 e il 2007, sotto il qui presente nome Blackfield, hanno pubblicato due dischi di ottimo pop che approcciava più i Coldplay che i Radiohead, come in parecchi azzardano ancora a scrivere. Il debutto omonimo rimane il nostro favorito perché più spontaneo e nettamente più ispirato del successore, “II”, venuto fuori con un po’ di smalto in meno. In questi quattro anni Wilson s’è dato un gran da fare per sé (il buon “Insurgentes” in solo e due full-length coi Porcupine Tree) e per gli altri (ha prodotto gli ultimi Opeth e Anathema, oltre ad aver rimasterizzato il catalogo dei King Crimson dal ’69 all”84), Geffen ha pubblicato un paio di lavori passati inosservati dalle nostre parti, ma lui è una celebrità nel natio Israele. I diversi progetti personali non hanno apportato alcuna modifica al DNA dei Blackfield, così “Welcome To My DNA”, più che un benvenuto per un nuovo ospite, è un po’ minestrina riscaldata per i precedenti avventori. Le canzoni migliori sono rese tali dal continuo lifting agli arrangiamenti tra strati di archi e infiniti ritocchi nei dettagli dei suoni, il che rende il tutto ben confezionato ma poco spontaneo. C’è molto mestiere qui in mezzo, lo abbiamo detto, ma non per questo sputiamo sulle canzoni che meritano elogi. Apre Glass House con le sue vaghe tonalità alla Pink Floyd ultima maniera, poi Waving da un tocco di vivacità e dopo diversi ascolti è meno banale di quanto appaia in principio; Zigota ricalca fedelmente il taglio melodico dei Blackfield dei dischi passati e anche Oxygen, con Geffen padrone del microfono, ottiene la sua rispettabilità. Si deve però fare i conti con le storture. Quella sfilza di fuck you all reiterati a capo di Go To Hell sa di adolescenza scaduta e con la muffa dentro: certe espressioni “riottose” hanno perso efficacia con l’abuso che se n’è fatto e se ne fa, per cortesia, evitateci questi cliché a quarant’anni suonati. Rising Of The Tide non decolla neanche dopo quattro cinque passaggi, è proprio sgonfia come un palloncino bucato. Il riffoncino di Blood è una forzatura in mezzo alle tante lacrimucce che inzuppano il kleenex appallottolato in tasca. A temperatura media si fermano l’ennesima eco pinkfloydiana di On The Plane, DNA che tenta in tutti i modi di far venire il magone, Dissolving With The Night col suo finale in crescendo orchestrale che s’arresta su una coda di pianoforte. Se non conoscessimo i primi due dischi dei Blackfield ci esalteremmo pure di fronte a “Welcome To My DNA” ma non è così. Questo è un film visto e rivisto girato sullo stesso copione da sette anni ad oggi. E il fatto che nulla, proprio nulla muti, induce a sospettare che anche questo diffuso malessere esistenziale non sia più un’urgenza comunicativa ma una parte che dev’essere recitata ad ogni costo. E anche a voler sgomberare il campo dalla diffidenza, questo è un album tutto sommato piacevole, ma che si esaurisce dopo poche fiammate.

(2011, Kscope)

01 Glass House
02 Go To Hell
03 Rising Of The Tide
04 Waving
05 Far Away
06 Dissolving With The Night
07 Blood
08 On The Plane
09 Oxygen
10 Zigota
11 DNA

A cura di Marco Giarratana

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