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Cat Power – Covers

È inevitabile essere pre-orientati quando ci troviamo di fronte alla visione, alla lettura o all’ascolto di qualcosa di cui si conosce il vissuto. Cat Power ha sempre condiviso molti aspetti dolorosi della sua vita, ancor prima i media potessero ricamarci su, cicatrizzando le ferite con la scrittura, il canto, gli  arrangiamenti, o ancora facendosi intervistare con l’eyeliner sbavato e due occhi nerissimi persi nel vuoto. Una vita che ruota attorno a cicli ricorsivi fatti di cure e ricadute che finalmente a un certo punto sembra volersi assestare. Chan è cosciente della sua identità di esploratrice e narratrice senza radici, salda nell’instabilità della sua esistenza atipica.

Un figlio, il divorzio dalla Matador e la pandemia: il suo terzo album di cover – dopo “Jukebox” (2008) e “The Covers Record” (2000) – non poteva poggiarsi su basi differenti dai precedenti. Covers è come una strada tortuosa che da Billie Holiday passa per Lana Del Rey; dodici tracce rimaneggiate come solo lei sa fare, riservando alle stesse il medesimo processo che rivolge ai suoi pezzi: li sventra, li piange, li sconvolge, li vive. Si potrebbe giocare a trovare un criterio nella scelta di queste tracce inesplorate, se non dai loro stessi autori, o a individuare un tema ricorrente che leghi Chan Marshall alle stesse ma sarebbe un lavoro pressoché inutile, data la sua tendenza a lasciarsi andare a ricordi e sensazioni personalissime e sconosciute.

Di sicuro, c’è il rapporto da sempre controverso con la religione che scarnifica il Gospel di Bad Religion (Frank Ocean) e lo trasforma in voglia di parità e giustizia. C’è la sua “Hate” disinnescata dalla rabbia e ribattezzata Unhate. C’è un patto di sangue con Kitty Wells che Power siglò quando ancora era una bambina, in It Wasn’t God Who Made Honky Tonk Angels. Ci sono le dipendenze in generale e quella dall’alcol in particolare in A Pair Of Brown Eyes dei Pogues. C’è la suo voce terrosa e un abito folk dentro White Mustang di Lana Del Rey. C’è inquietudine nel prog di I Had A Dream Joe di Cave, che culmina in un refrain  disperato, ”I Had a Dream, Joe (…) I opened my eyes, And there you were”.

Alcune tracce sono un inno a se stessa, giovane donna che ha superato con il suo mestiere dipendenze varie, come Here Comes A Regular dei Replacements e poi c’è l’apice: un omaggio a Philippe Zdar, amico intimo e collaboratore di Marshall che si traduce in una versione di I’ll Be Seeing You (Billie Holiday) in grado di raggiungere uno stato di grazia paragonabile alla sua versione di “All I Have To Do Is Dream” degliEverly Brothers.

Infine, These Days fa un doppio lavoro: rende giustizia all’interpretazione di Nico e riporta alla mente quella meraviglia cinematografica contenuta ne “I Tenenbaum”, con una Gwyneth Paltrow agrodolce mentre indossa un eyeliner perfetto. Per quanto alcune rivisitazioni possano risultare eccessivamente uniformi allo stile di Marshall, “Covers” ha un’ampia portata emotiva, dodici tracce potenzialmente frutto della sua penna disperata che potevano pervenire solo in questa forma: commovente, passionale e ruvida. Esattamente come lei.

(2022, Domino)

01 Bad Religion (Frank Ocean) 
02 Unhate (Cat Power/Chan Marshall)
03 Pa Pa Power (Dead Man’s Bones)
04 A Pair Of Brown Eyes (The Pogues)
05 Against The Wind (Bob Seger)
06 Endless Sea (Iggy Pop)
07 These Days (Jackson Browne)
08 It Wasn’t God Who Made Honky Tonk Angels (Kitty Wells)
09 I Had A Dream Joe (Nick Cave)
10 Here Comes A Regular (The Replacements)
11 I’ll Be Seeing You (Billie Holiday)

IN BREVE: 3,5/5

Catanese, studi apparentemente molto poco creativi (la Giurisprudenza in realtà dà molto spazio alla fantasia e all'invenzione). Musicopatica per passione, purtroppo non ha ereditato l'eleganza sonora del fratello musicista; in compenso pianifica scelte di vita indossando gli auricolari.

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