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Deafheaven – Infinite Granite

In natura il fenomeno dell’esuviazione è quello che in gergo viene detto cambio di pelle. Interessa diverse specie di animali, su tutti i rettili, e rappresenta una forma di evoluzione. La necessità di seguire l’inevitabile crescita del proprio involucro epidermico porta queste specie a cambiamenti di pelle costanti. Questo esordio potrebbe sembrare uno svogliato e superficiale incipit di un qualche articolo di biologia, tuttavia è una perfetta esemplificazione, con le dovute proporzioni temporali, della parabola artistica dei Deafheaven.

Nati nel 2010 dall’incontro di George Clarke e Kerry McCoy, dopo una prima demotape danno alle stampe, un anno dopo, il primo full length (“Roads To Judah”, 2011) dove mettono sin da subito le cose in chiaro: gli estremismi sono tali solo per chi rinuncia alla curiosità. Certo, un’affermazione del genere può fare storcere il naso ai puristi di un genere così granitico e scevro da variazioni sul tema quale è il black metal. Però, sin dagli esordi, le increspature shoegaze e l’inseguimento della melodia hanno caratterizzato la peculiarità sonora dei californiani, affrancandosi dalle limitazioni di un’etichetta di solo black metal per abbracciare una proposta diversa, ricca di sfumature e con una buona attitudine al cambiamento.

Processare un’evoluzione dei propri stilemi non è stato un evento repentino come la muta di un serpente, anzi, ci sono voluti dieci anni e cinque dischi. Tutto è cominciato da “Sunbather” (2013), disco cupo e plumbeo – a differenza di una copertina dallo sfondo rosa salmone – ma con i primi germogli shoegaze che hanno contaminato le fondamenta metal andando a gettare le basi per la sintesi blackgaze successiva. Si muovono su questo binario “New Bermuda”(2015) prima e “Ordinary Human Corrupt Love” (2018) poi che, tra cavalcate à la Ride e screamingluciferini, rappresentano due fondamentali tasselli del percorso. E quando si pensava che l’equilibrio fosse stato raggiunto, assestandosi nel mezzo tra l’oscura muscolarità del black metal e l’eterea estetica dreamgaze, ecco che arriva la polverizzazione di ogni certezza.

Come si evince anche dalla copertina, in cui sembra essere in atto la disintegrazione di una sfera blu in infinite particelle, Infinite Granite è una sorta di anno zero per la band di San Francisco. È al tempo stesso un approdo ma anche una ripartenza: l’atomizzazione delle granitiche fondamenta metal lascia il passo ad una dimensione più incorporea, fatta di passaggi sonori ambiziosi, pieni di riverberi e un registro vocale più terso e melodico che riserva il graffio del growl ad episodi sparuti. Ad agevolare la realizzazione di queste idee un contributo importante lo ha dato la presenza, in cabina di regia, di Justin Meldal-Johnsen, dal curriculum di un certo rilievo: ha prodotto dischi di Paramore e Wolf Alice, ha suonato e contribuito al missaggio di diversi dischi di Beck nonché ha militato come bassista nei Nine Inch Nails di Trent Reznor.

Shellstar è l’inizio che non ti aspetti: il dream pop che permea le strutture sonore del pezzo è uno schiaffo in pieno volto a chi si aspettava un esordio granitico, volto a recuperare le radici metal degli esordi. Resta, però, la crepuscolarità delle trame, elemento in comune con il passato, che contraddistingue anche i singoli In Blur e Great Mass Of Color, così affini alle discografie di Slowdive o Ride. Echi del passato si avvertono sul finale di GMOC, in cui la struttura ritmica diventa più granitica e l’esplosione si manifesta con un recupero del growl che dà senso e compiutezza alla situazione sonora.

Il nodo centrale del disco si sviluppa attraverso il pastiche strumentale di Neptune Raining Diamonds, la psichedelia delle fughe cerulee di Lament For Wasps che ricorda certi Spiritualized e la carica narrativa di The Gnashing, a metà strada tra Alcest e Radiohead. Con Other Language ci avviciniamo alla chiusura in una spirale di progressività malinconica, mentre la conclusione vera e propria è affidata a Mombasa, un brano costruito secondo una climax ascendente: parte sommesso sviluppando un intreccio di chitarra e piano che si arricchisce via via di riverberi sonori, fino ad esplodere in un finale di tutt’altra fattezza, in pieno stile blackgaze, con il doppio pedale in grande spolvero e le linee vocali di Clarke tornate a graffiare per l’occasione.

Il finale del disco ci dimostra come in realtà i Deafheaven non vogliano far trovare punti di riferimento all’ascoltatore: l’ispirazione è un metronomo di idee che non si può controllare. L’abito shoegaze costruito per l’occasione funziona, fornisce nuove possibilità di lettura dei cambiamenti e dimostra intelligenza artistica; lo squarcio finale non fa che corroborare quanto appena detto. “Infinite Granite” ci dice una cosa semplice e immediata: il futuro artistico dei Deafheaven è incerto ma il presente è più florido che mai.

(2021, Sargent House)

01 Shellstar
02 In Blur
03 Great Mass Of Color
04 Neptune Raining Diamonds
05 Lament For Wasps
06 Villain
07 The Gnashing
08 Other Language
09 Mombasa

IN BREVE: 4/5

Nasco a S. Giorgio a Cremano (sì, come Troisi) nel 1989. Cresco e vivo da sempre a Napoli, nel suo centro storico denso di Storia e di storie. Prestato alla legge per professione, dedicato al calcio e alla musica per passione e ossessione.

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